Italia e Malta non sono accomunate soltanto dal mite clima mediterraneo. In entrambi i paesi i giornalisti che puntano lo sguardo sugli intrecci criminali della classe politica rischiano di pagare un prezzo altissimo. Ritorsioni legali – una causa civile con pretestuose richieste di risarcimento milionario è sempre in agguato – ma nel peggiore dei casi minacce più o meno velate e intimidazioni. L’omicidio della giornalista e blogger maltese Daphne Caruana Galizia lo scorso 16 ottobre ha segnato un punto di non ritorno, dimostrato anche dalle modalità eclatanti dell’esecuzione. L’esplosione dell’autobomba ha avuto infatti una duplice valenza. Non solo quella strumentale, brutalmente efficace nel mettere per sempre a tacere una voce libera e scomoda; ma anche quella simbolica, lanciando un messaggio utile a incutere paure e soggezione, rafforzare connivenze, stringere a doppio filo accordi indicibili di complicità.

C’è poco da sorprendersi se – come si legge in un articolo del Guardian – i parlamentari europei approdati come osservatori a Malta, all’inizio “seriamente preoccupati” per lo stato di diritto nell’Isola, siano ripartiti all’inizio di dicembre “ancor più turbati”. La riluttanza dei magistrati a indagare e perseguire i casi di corruzione che investono le alte sfere della politica e della finanza – profondamente compenetrate – avrebbe determinato una “percezione di impunità” nei loro contatti con gli interlocutori locali. Una spessa coltre di omertà e di imperizia avvolge gli apparati di potere, a giudicare dall’esito dei colloqui tra la delegazione europea e i referenti istituzionali maltesi: funzionari che “non rispondono alle domande”, altri che si limitano a leggere dichiarazioni preconfezionate, altri ancora che disertano gli appuntamenti. Mentre le forze di polizia e il procuratore generale avrebbero rivelato “un alto grado di riluttanza a investigare e il fallimento nel perseguire corruzione e riciclaggio di denaro”, nonostante le segnalazioni dell’agenzia antiriciclaggio, “proteggendo alti funzionari governativi e le istituzioni finanziarie”.

La gracilità dello stato di diritto maltese ha purtroppo radici profonde. La costituzione di quel paese assicura al vertice dell’esecutivo il potere esclusivo di selezionare i più alti funzionari, condizionando così sia l’esercizio dell’azione giudiziaria che l’attività di supervisione finanziaria. A rappresentare quell’autorità è oggi un primo ministro il cui possibile coinvolgimento in una rete di corruzione internazionale legato alla realizzazione del gasdotto Tap era stato riferito proprio dalla giornalista assassinata. Come sorprendersi se i primissimi rilievi sul suo omicidio sono stati coordinati da un magistrato che l’aveva querelata per diffamazione a seguito dei suoi articoli di denuncia, e come stupirsi se le successive indagini sono state affidate a un investigatore sposato con un ministro di quell’esecutivo inquinato?

Lo stesso primo ministro maltese, trascorsi appena due giorni dalle prime indiscrezioni sugli esiti desolanti della missione europea, ha annunciato una retata di dieci presunti esecutori dell’omicidio, tre dei quali formalmente incriminati. Una fortunata coincidenza, certamente. Gli imputati sono esponenti del sottobosco criminale locale che per l’attentato avrebbero utilizzato un sofisticato esplosivo al plastico di difficile reperibilità sull’isola. Già noti alle forze dell’ordine, sarebbero stati incastrati dalle comunicazioni telefoniche, inclusa l’ultima che ha innescato il detonatore dell’ordigno. Eppure nelle incredibili parole del ministro dell’Interno maltese i criminali sarebbero riusciti nel loro intento quasi incidentalmente: la giornalista è stata “sfortunata – “unlucky” – perché la bomba che l’aveva colpita era riuscita a ucciderla”, a differenza di “altri giornalisti sono stati vittima di attentati dinamitardi in passato, anche se senza successo”.

Un puzzle con tanti pezzi mancanti, ma soprattutto con troppe tessere che non combaciano. Di verosimile c’è che il governo di una piccola isola del mediterraneo, stato sovrano e membro dell’Unione europea, sia diventata teatro di una colonizzazione criminale su larga scala, nell’indifferenza delle istituzioni comunitarie che solo ora si riscuotono inviando osservatori. Che l’oligarchia criminale di quel paese abbia provato a zittire con le maniere spicce i giornalisti che hanno dato notizia dell’amalgama tossico tra vertici istituzionali, finanza al servizio del riciclaggio, business internazionale del petrolio e del gas, narcotraffico e altri affari illeciti.

Che un gruppo criminale al servizio di quel grumo di poteri abbia pianificato e realizzato con stile e competenze affini a quelle delle organizzazioni mafiose un attentato mirante nello stesso tempo a “punire” e lanciare un avvertimento a non disturbare quegli equilibri politici e criminali. Che nessuna opposizione politica degna di questo nome sia in grado di raccogliere il testimone della denuncia, giacché persino il capo del partito di minoranza era stato segnalato dalla giornalista Caruana Galizia per le sue connessioni con trafficanti di droga. E che in definitiva risuonino oggi più attuali che mai le ultime, terribili parole pubblicate dalla giornalista, pochi minuti prima della sua scomparsa: “Ora ci sono corrotti ovunque guardi. La situazione è disperata”.

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