Due pastiglie colorate appoggiate sul comodino e mezzo bicchiere d’acqua. La vita di Stefano con l’Hiv è tutta qua, in un “rito quotidiano” che si esaurisce nel giro di un minuto. La sua è una storia – che raccontiamo in occasione della giornata mondiale per la lotta all’Aids – simile a quella di altre migliaia di persone sieropositive in Italia, un esercito di invisibili che grazie ai farmaci riescono ad azzerare la carica virale e quindi il rischio di contagio sugli altri, senza conseguenze sulla vita di tutti i giorni. Almeno per quanto riguarda la salute. Perché essere un sieropositivo significa anche scontrarsi con le paure, gli stereotipi e i pregiudizi degli altri. Sul lavoro e nelle relazioni. Uno “stigma” lo definisce Stefano, “presente anche nella comunità lgbt“. “Dire che sono sieropositivo ha sempre fatto scappare tutti. Per questo mi sono chiuso a riccio. Perché fa male sentirti discriminato affettivamente. Incontri una persona, sembra che tutto vada bene, poi però glielo dici e lei scappa. Ogni volta si apre una ferita”. Stefano, che è anche counselor al centro Blq Checkpoint per la salute sessuale, ha deciso di aprirci le porte della sua casa di Bologna e raccontare il suo passato e il suo presente, dal contagio “avvenuto a 40 anni per amore” alle difficoltà nel comunicarlo agli amici, al fidanzato e alla famiglia, a partire da sua madre. “Avrei voluto che al mio posto in questa intervista ci fosse un ragazzo più giovane di me, ma nessuno ha voluto metterci la faccia. Hanno paura di essere discriminati sul lavoro, negli studi, con gli amici e nel sesso”.

Una paura del contagio ancora presente ma senza reali fondamenta. Sono gli stessi medici a spiegarlo: chi è in terapia con trattamenti retrovirali costanti non può trasmettere il virus. “Oggi avere un rapporto con una persona in terapia non è rischioso perché la viremia è soppressa” spiega Cristina Mussini, direttrice della Clinica malattia infettive dell’azienda ospedaliera universitaria del policlinico di Modena. La dottoressa Mussini si occupa da oltre vent’anni di Hiv e Aids. “Oggi è un altro mondo rispetto al passato. Ma in 30 anni sono stati fatti molti passi avanti nella sanità ma non nella società. In Italia c’è ancora un forte stigma sul sesso , di cui si parla pochissimo. Una ricetta per fermare la trasmissione non ce l’ho ma credo che sia utile far rientrare l’Hiv nelle malattie sessualmente trasmissibili, farlo uscire dall’ambito strettamente sanitario per inserirlo in un discorso di sessualità, affettività e benessere. Un lavoro che va fatto a partire dalle scuole. Bisogna poi smettere di far finta che la Prep (profilassi pre-esposizione per chi ha comportamenti a rischio) non esista. È uno strumento fondamentale, e i medici devono poterlo prescrivere”.

In Italia sono circa 130mila le persone sieropositive. Secondo i dati diffusi dall’Istituto superiore di sanità in occasione della Giornata mondiale per la lotta all’Aids del 1 dicembre, nel 2016 sono state 3451 le nuove diagnosi di Hiv, pari a 5,7 nuovi casi per 100mila residenti. L’età media è aumentata, così come sono cambiate le modalità di trasmissione: diminuisce infatti la proporzione di consumatori di sostanze per via iniettiva, ma aumenta la proporzione dei casi attribuibili a trasmissione sessuale, in particolare tra gay maschi. Sempre nel 2016 sono stati inoltre segnalati 778 casi di Aids conclamato e oltre il 50% dei casi di Aids segnalati era costituito da persone che non sapevano di essere Hiv positive. Sul totale delle nuove diagnosi di Hiv, il 76,9% è registrata tra i maschi. Le regioni con l’incidenza più alta di casi di Hiv sono state Lazio, Marche, Toscana e Lombardia.

 

 

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