In soli tre anni l’economia britannica è passata dall’essere la locomotiva del G7 all’ultima della classe. E le stime di crescita dell’Office for Budget Responsibility, agenzia governativa, sono state tagliate al ribasso. Mentre proseguono i negoziati tra Londra e Bruxelles sul conto da pagare per la Brexit – si parla di circa 50 miliardi di sterline – i cittadini del Regno Unito scoprono che i loro salari ritorneranno ai livelli del 2008 solamente nel 2025. Il Paese è poi alle prese con una produttività che nell’ultimo decennio è tornata ai livelli di 200 anni fa.

“L’Obr ha consegnato al Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond una serie di previsioni economiche catastrofiche. Dopo un decennio di irrealizzati obiettivi di produttività, ha annunciato la madre di tutti i downgrade”. È quanto ha scritto nel suo ultimo report la Resolution Foundation, think tank indipendente con la missione di migliorare le condizioni di vita dei 15 milioni di britannici a più basso reddito. L’economia inglese crescerà nei prossimi cinque anni mediamente dell’1,4%, che vuol dire il 2% in meno di quanto precedentemente stimato per il 2022. In valori assoluti le percentuali si traducono in una contrazione di 42 miliardi di sterline al primo trimestre del 2022 rispetto alle stime di marzo 2017, e di 72 miliardi al primo trimestre del 2021 rispetto a quanto stimato nella finanziaria del 2016, segnalando dunque un netto peggioramento delle condizioni dell’economia durante l’anno in corso.

I dati ufficiali raccontano infatti un’economia britannica paludata nei primi tre trimestri del 2017, che ha fatto registrare una crescita del Pil addirittura inferiore a quella dei primi due trimestri del 2016, ovvero nei mesi antecedenti al referendum. Un segnale in controtendenza rispetto all’Eurozona, agli Stati Uniti, al Canada e anche al Giappone, che supera il Regno Unito perfino nel confronto diretto nel 2017. Tra i Paesi del G7, compresa dunque l’Italia, l’economia della Gran Bretagna ha fatto registrare quest’anno la crescita peggiore, dopo essere stata solo nel 2014 la locomotiva del G7. Sir Stuart Rose, già presidente e amministratore delegato della catena Marks & Spencer e oggi lord conservatore, ha dichiarato pochi giorni fa alla Bbc: “Non importa a quali fonti si fa riferimento, l’Ifs, l’Ons, la Bank of England. Tutti gli indicatori ci dicono che siamo passati dall’essere il Paese dalle migliori performance del G7, d’Europa, del mondo, all’essere adesso in fondo alle classifiche. E tutto questo è successo negli ultimi 6 o 12 mesi”.

La Brexit sta esacerbando un problema strutturale dell’economia Uk, ovvero la scarsa produttività. La produttività è la misura di quanto un lavoratore riesca a produrre in un’ora di tempo e rappresenta l’efficienza dei lavoratori britannici. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la produttività della Regina era cresciuta del 2-2,5% all’anno. La Resolution Foundation ha calcolato invece che nell’ultimo decennio il Regno Unito ha fatto registrare in termini di produttività la performance peggiore dal 1812, ovvero da quando Napoleone invase la Russia. L’Obr, che fino a ora aveva basato le proprie stime su una crescita della produttività annua da dopoguerra del 2%, finendo per sovrastimare costantemente i risultati effettivi dell’economia britannica, ha deciso adesso di portare questo valore all’1,3% annuo da qui al 2022. In un Paese che lavora a pieno ritmo, registrando tassi di disoccupazione ai minimi storici, i salari sono ancora al di sotto del 6% rispetto ai livelli del 2008, e secondo la Resolution Foundation si potranno pareggiare solo nel 2025. Una condizione che pone sotto pressione le famiglie e favorisce le disuguaglianze, alimentate anche dalle misure fiscali implementate dopo le elezioni del 2015. Tali misure, secondo il think tank, hanno provocato una perdita secca di 715 sterline annue per il 33% dei britannici a più basso reddito e un guadagno invece di 185 sterline per il 33% più ricco.

La scarsa produttività determina anche una debole crescita del Pil, che si traduce inoltre in tagli alla spesa pubblica e al welfare, quantificati nella finanziaria appena presentata da Hammond in circa 12 miliardi di sterline. Nonostante l’assegnazione di 2,8 miliardi di sterline in più per la Sanità, inferiori ai 3 miliardi in più stanziati per i costi operativi della Brexit, e ai 4 invece richiesti dalla Nhs, tutti gli altri servizi pubblici secondo l’Institute of fiscal studies continueranno a soffrire tagli del 7% nei prossimi 5 anni. Mancano investimenti in infrastrutture, in formazione, in ricerca e sviluppo. E molto nel prossimo futuro dipenderà dai termini che Londra concorderà per l’uscita con Bruxelles. In gioco ci sono i traffici commerciali, gli investimenti esteri e la circolazione delle persone tra il Regno Unito e l’Unione Europea. Il modello norvegese, cioè l’appartenenza all’Area Economica Europea, potrebbe risultare per le aziende britanniche meno traumatico di un accordo di libero scambio sulla falsariga delle esperienze con il Canada o la Svizzera, o piuttosto dover fare i conti con il modello cinese, le regole generali del Wto.

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