L’accoglienza diffusa nei Comuni dei migranti? Nel 2016 ha aderito al progetto solo un comune su otto in Italia e quasi sempre al Sud. Quasi un anno dopo la firma dell’Intesa tra ministero dell’Interno ed Anci per rilanciare il progetto Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati) sono 1017 su 7978 le amministrazioni che hanno aderito al sistema che secondo un decreto legislativo di due anni fa (145/15) sarebbe dovuto ormai diventare l’unico in Italia. I numeri raccontano una realtà in crescita (l’anno scorso erano circa 35mila i posti, mentre nel 2015 28mila), ma non abbastanza perché le strutture che agiscono nell’emergenza e offrono “servizi minimi” non siano da considerare ancora la via privilegiata. Secondo Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), “è un fallimento” e tra i principali problemi c’è il fatto che tutto funzioni ancora su base “volontaria”. Ma soprattutto è una scelta “politica”. Diversa la posizione dell’Anci che parla invece di “maratona” e di risultati che arriveranno presto. Sotto accusa il Viminale: i dati parlano di una migliore integrazione di chi entra negli Sprar, e quindi usufruisce di stage, tirocini e corsi di lingua, rispetto a chi viene accolto nelle strutture di emergenza. Ma ancora ad essere favoriti sono i centri di grandi dimensioni.

Che cos’è e come funziona – Il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati è la rete comunale dell’accoglienza, coordinata dal Servizio centrale, che il ministero dell’Interno ha affidati all’Anci (Associazione nazionale comuni italiani), che a sua volta si avvale anche della collaborazione della Fondazione Cittalia per la gestione del Sistema. Che nel concreto significa: il Comune dà la sua disponibilità per ricevere una quota di migranti, diventa “ente capofila del progetto” e riceve finanziamenti standard (35 euro a persona) che possono aumentare sulla base dei servizi per l’integrazione offerti. L’alternativa “d’emergenza” sono i Cas, Centri di accoglienza straordinaria, che per legge sono dotati solo dei “servizi minimi”: in altri termini una branda, un’infermeria e qualcosa da mangiare. Per legge. Poi qualcuno si spinge oltre, ma sono casi rari. Sempre stando alla norma, i Cas dovrebbero essere soluzioni temporanee in attesa che si liberi un posto Sprar. Peccato però che ad oggi i richiedenti asilo quasi in otto casi su dieci siano in un Cas.

Il 14 dicembre dell’anno scorso, Marco Minniti, fresco di nomina a capo del Viminale, siglava un accordo con Anci per potenziare la rete dell’accoglienza dei Comuni, introducendo soprattutto la “clausola di salvaguardia”: in sostanza, se un Comune entra in un progetto Sprar, non è obbligato ad accogliere anche un centro di accoglienza straordinaria (Cas). “Molte città, tra Sprar, Cas e Cara, rispettano la loro quota, e realizzano il piano Anci-Viminale. Capisco che è non è semplice, ma l’accoglienza va dirottata su quei territori che non fanno accoglienza, secondo quanto prevede l’accordo. Proprio alla luce di questa situazione la stessa Anci ha già chiesto più volte e ufficialmente, anche ai tempi del prefetto Gabrielli, di concentrarsi sui Comuni con zero presenze”. Lo diceva il 20 giugno 2017 il presidente dell’Anci e sindaco di Bari Antonio Decaro.

“Non conviene, è fallimento”. “No stanno aumentando le disponibilità” – Le opinioni sul sistema sono contrastanti. Chi è molto critico è Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati onlus di Trieste. “Il problema è che il governo sostiene lo Sprar a parole, ma nei fatti l’amministratore medio non trova convenienza nell’entrare nel sistema ordinario”. Secondo Schiavone il problema è che l’ingresso nel programma avviene solo su base volontaria. “Non credo che così lo Sprar possa diventare l’unico sistema nel Paese, ma nemmeno il maggioritario”. Quindi ha concluso: “Il sistema, nella pratica, disattende il disegno normativo. È un fallimento ed era pure annunciato: è impossibile da applicare, se voglio un sistema unico, nel momento in cui lo metto à la carte, che uno può scegliere se starci o anche no”. E i numeri, mai come quest’anno, inducono a pensare che non ci sia un’emergenza: questo ormai è evidente. Il Dossier statistico sull’immigrazione curato dal centro studi Idos e dalla rivista Confronti indica che solo lo 0,4% della popolazione italiana è composto da richiedenti asilo.

Dall’Anci, Associazione nazionale comuni italiania, la posizione è totalmente diversa. Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato immigrazione per l’Anci: “Il ministero ha dato una grossa mano a sviluppare il progetto. Lo Sprar non è un centometrista, ma un maratona: ci vorrà del tempo ma ci arriveremo”. Biffoni si basa sui numeri che comunque negli anni sono cresciuti: lo Sprar oggi conta circa 35mila posti, mentre nel 2015 erano circa 28mila. E anche per questo, ha dichiarato il primo cittadino, è necessario che l’adesione resti su base volontaria: “Se non fosse così, il sistema crollerebbe: lo Sprar funziona se sono dei progetti dei Comuni e i Comuni ci devono credere. I sindaci ci hanno messo la faccia e continuano a farlo, quando hanno deciso di sottoscrivere l’accordo per l’equa distribuzione dei migranti sul territorio. Oggi la situazione è migliorata, le clausole di salvaguardia sono preservate. Il ministero è stato pronto ad intervenire, quando necessario”. Tuttavia, non tutto va ancora liscio e le reazioni sono diverse a seconda della Prefettura.

Italia spaccata in due: pochi centri Sprar al Nord – Quello che però non si può discutere è il fatto che il “travaso”, previsto dal decreto due anni fa, ancora non è avvenuto. Non solo, stando ai numeri l’Italia dell’accoglienza si è spaccata in due. A Sud sono nati molti più centri Sprar di quanti non ce ne siano a Nord. In Calabria il 10% dei centri sono Sprar, in Sicilia e Lazio il 19%, ma escluse Piemonte e Lombardia le altre regioni del Nord sono sotto il 3,5%. Perché? Secondo Schiavone dell’Asgi, è una questione politica: “A Nord il motivo del no allo Sprar è principalmente politico: i sindaci non vogliono i richiedenti asilo e se sono costretti ad aprire un Cas possono scaricare la responsabilità sulle prefetture. Al Sud invece si accetta perché c’è un contributo economico e perché comunque è uno strumento che dà uno stimolo all’economia locale”. Tra gli incentivi promossi dall’intesa Anci-Viminale infatti, come evidenziato dal rappresentante Asgi, ci sono 700 euro all’anno per ogni richiedente accolto nello Sprar. Anche per i Cas c’è una quota: 500 euro. La proposta entrerà molto probabilmente nella prossima Legge Finanziaria. Il contributo non ha vincoli d’investimento: ogni sindaco potrà usarlo come riterrà opportuno. “Il sistema in questo modo”, ha concluso Schiavone, “incentiva il trattamento dell’accoglienza come un puro fattore economico”. Secondo Biffoni dell’Anci invece, non basta parlare di una divisione tra Nord e Sud ed è invece necessario andare oltre i numeri e valutare anche la qualità dei progetti: “È un problema di diffusione dei numeri”, ha commentato, “al Nord ci sono comunque alcuni dei progetti più avanzati in assoluto, come quello della Città metropolitana di Bologna”.

Le regole che favoriscono i grandi centri – Se il sistema dello Sprar dovrebbe essere quello principalmente incentivato dal Viminale, nei fatti però succede diversamente. Ad esempio risale a maggio la decisione del ministero dell’Interno di introdurre il nuovo schema per il capitolato d’appalto dei centri di accoglienza straordinaria. “Un capolavoro per mettere i bastoni fra le ruote agli Sprar”, ha attaccato Schiavone. Tre gli obiettivi sbandierati dal ministro Minniti: “Il superamento del gestore unico, la tracciabilità dei servizi, i poteri di ispezione da parte del ministero dell’Interno che vengono significativamente rafforzati”. Il primo punto, però, vale solo per i centri sopra i 300 posti e il criterio di scelta di un appalto è “quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa”, che inevitabilmente favorisce le grandi concentrazioni dove è possibile fare economia di scala. L’esatto contrario dell’accoglienza diffusa. Così la vede il rappresentante Asgi: “Tutto quell’incredibile capitolato è pensato per centri di grandi dimensioni che non possono essere assorbiti all’interno dello Sprar. La prima volta che l’ho letta ho pensato che dovesse esserci una seconda parte. Per fortuna qualche Prefettura con il buon senso ha aggiunto dei correttivi, ma sua sponte: ha aggiunto correttivi che non sfavorissero troppo i progetti simili agli Sprar e con standard simili a Sprar”. Dall’Anci sminuiscono il problema: “È necessario tutelarsi anche in caso di emergenza, capisco il punto di vista del ministero”, ha replicato Biffoni.

Ma l’accoglienza Sprar resta la più efficace per l’integrazione – Un’altra differenza fondamentale tra Cas e Sprar riguarda l’efficacia del percorso d’accoglienza. A parte gli esempi di Trieste e Torino citati da Schiavone, nella maggior parte dei Cas italiani, chi riceve l’asilo politico esce dalle strutture, concepite solo per richiedenti. “Se è fortunato, a quel punto trova posto in una struttura Sprar altrimenti non gli resta altro che la strada”, ha detto Schiavone. Gli Sprar, invece, hanno una durata minima di sei mesi dopo l’ottenimento dell’asilo politico o della protezione internazionale. Quel lasso di tempo serve per fare tirocini, stage, inserimenti lavorativi, per poter diventare indipendenti. “Il tempo però è troppo poco, così spesso chi entra nello Sprar alla fine del percorso deve essere seguito ancora dai servizi sociali del Comune”, ha concluso Schiavone. Per alcuni amministratori è questo un disincentivo all’accoglienza diffusa. I dati del Dossier immigrazione di Idos e Confronti sull’efficacia del sistema lasciano comunque spiragli di fiducia: nel 2016 il 41% delle persone uscite dai centro Sprar era autonoma, con un lavoro e una casa, pienamente integrata, il 6% in più del 2013. Però il 54% ha lasciato volontariamente prima della scadenza dei termini (di questi il 25% “ha acquisito gli strumenti utili all’integrazione”).

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