Quando ero bambino mio padre mi portava in giro in automobile un po’ dappertutto. Sì, certo, negli Anni Ottanta i papà avevano molto tempo oltre le canoniche otto ore di lavoro. Ma soprattutto si districavano, almeno il mio, con notevole maestria davanti ad una cartina geografica. Nessuna sudorazione fantozziana, ma eccelsa osservazione del planisfero o del semplice Stivale italiano pur da generico impiegato con la terza media.

Stanghetta degli occhiali da sole tra i denti, ditone mignolo a seguire il percorso sulla carta (l’indice avrebbe coperto tutta la statale o provinciale) papi – eh sì lo chiamavo così ben prima delle olgettine con B. – mi mostrava ogni tipo di strada possibile su un atlante del Touring Club da centinaia di pagine. Cartina dai prospetti infiniti, che quadrettava perfino un po’ di FranciaSvizzeraAustria Jugoslavia, oggi completamente spelacchiata ma ancora in uso. Dopo aver osservato il dito che percorreva tondeggiante i tornanti di qualche passo alpino, papi guardava lontano, e qualche volta capitava pure di osservare il sole e la luna che albeggiavano o tramontavano.

Punti cardinali spiccioli insomma. E non vale che se ti giri e ti sposti si spostano l’Est e il Nord. Il Nord e l’Est sono sempre lì nella stessa direzione di sempre che ti aspettano e ti guardano in attesa che impari ad orientarti per vivere. La geografia è ordine del mondo condiviso. Un po’ come la matematica o la lingua con cui si decide di parlare e comunicare con l’altro. Orientamento del quotidiano, consapevolezza del muoversi, immaginazione dello spostamento.

Per me è sempre stato assurdo prendere la metropolitana a Milano senza sapere che, per esempio, la linea verde taglia da Sud a Nord Est la città, mentre l’Autostrada del Sole mantiene una traiettoria nord/ovest sud/est da Piacenza a Rimini. Non parliamo poi del fastidio di fronte al piattume orografico di navigatori e Google maps. Terrificanti gingilli tecnologici che livellano monti, colline, dossi  e abissi del mare per il bene di una generica viabilità rapida e senza ostacoli.

Vi immaginerete la gioia allora quando ho letto del ritorno ad una dimensione naturale e logica dell’insegnare la geografia nelle scuole superiorisoprattutto da figure professionali competenti e non da insegnanti di risulta per risparmiare quattro lire, anzi i 500 euro da regalare come bambolotti di pezza a fine anno. Io non faccio testo, perché nel mio istituto professionale la geografia politica, fisica e turistica si insegnava tre ore a settimana. E che signore insegnanti. Quando diedi la maturità geografia divenne pure materia d’esame così potei sciorinare una conoscenza con tanto di immediata indicazione col dito sulla mappa di una Gallipoli d’alemiana e della lontana Bucarest che molti compagni somari spesso dimenticavano ricordando solo il prefisso Steaua. In altre occasioni, invece, incontravo amici che conoscevano ogni sospiro di Seneca ma faticavano a dirmi dov’era il lago Trasimeno; o altri ancora che in tre secondi netti potevano spiegarti la teoria dei quanti ma poi nella pratica non sapevano distinguere gli Appennini dalle Ande.

La geografia purtroppo è sempre stata materia trascurata, bistrattata, lasciata a marcire sotto al banco per settimane. Soprattutto in quei grandi licei dove si costruivano classi dirigenti. Tenuta come la sorellina minore del terzetto “italiano, storia e…”, considerata alla stregua della bislacca ora di educazione civica o di una qualunque penitente lezione di religione.

L’ora di geografia si è infine letteralmente e silenziosamente spenta tra le spire di un sapere immediato da smartphone che risolve tutto con un click – figuriamoci dunque la conoscenza di un monte, di un mare, di una città – e le roboanti tre I del Cav (Inglese, Impresa, Informatica). Proprio mentre noi quarantenni eravamo costretti ad imparare il linguaggio html o i segreti di wordpress, nel frattempo orde di brufolosi adolescenti con una pronuncia texana da paura si permettevano di sparare boiate a casaccio sulle capitali degli stati africani, mentre candidamente parlamentari e uomini politici di ogni partito (capito, di ogni partito) annaspavano cercando la giusta collocazione al Darfur o altri sottolineavano la presenza di Novi Ligure in Liguria. Così se siamo quello che mangiamo e studiamo, almeno come italiani non siamo dei grandi geografi.

D’ora in avanti però niente più scuse: i laureati in geografia torneranno in cattedra (sempre ne sia rimasto ancora qualcuno, nella moria di corsi di laurea che ne hanno falcidiato l’esistenza a livello universitario). Con un’avvertenza. Per l’eccesso di piacere del ritorno di un sapere cruciale non fatevi prendere dall’emozione come fece Donald Trump, prima ancora di diventare presidente, mostrando che anche negli Stati Uniti, o magari solo nella hall della Trump Tower le mappe non andavano oltre l’Hudson River: “Il Belgio… è una meravigliosa città”.

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