di Andrea Leone D’Agata*

Per parlare di indennità di disoccupazione (oggi Naspi) partiamo da questo esempio.

Il signor Marco è stato licenziato, ha impugnato il licenziamento, ha vinto la causa e ottenuto giudizialmente la reintegrazione. Successivamente ha chiesto al proprio datore di lavoro di ritornare in servizio e, per tutta risposta, prende la retribuzione (senza busta paga) senza lavorare, dato che il datore di lavoro preferisce pagarlo ma non farlo rientrare. Il signor Marco, tuttavia, non è contento, perché vorrebbe tornare a lavorare. Di più: sta anche percependo la Naspi e sa che dovrà restituirla con gli interessi.

La storia di Marco, unitamente ad una interessante chiacchierata con una addetta ai lavori, mi offre lo spunto per riflettere sul tema dei controlli nei confronti dei soggetti percettori di indennità Naspi. Ossia, come vengono spesi i soldi pubblici (quindi, nostri?). E’ banale osservare che è interesse di tutti, in primis dei lavoratori, che questi soldi giungano dove c’è necessità e diritto.

I disoccupati aventi diritto devono presentare la domanda di sostegno al reddito (es: Naspi), la DiD (Dichiarazione d’Immediata Disponibilità) e poi recarsi presso un operatore accreditato per la stipula del patto di servizio. Il patto di servizio personalizzato (introdotto dal Jobs Act) è un contratto sottoscritto dal lavoratore necessario al fine di poter godere dell’ammortizzatore sociale; di più, il mancato rispetto delle obbligazioni assunte comporta (o, meglio, dovrebbe comportare) la perdita dello status di disoccupato.

Tra gli obblighi principali contenuti nel Patto vi è quello dell’accettazione di un’offerta di lavoro.

Qualsiasi offerta? No. Solamente la “congrua offerta”. In altre parole il Patto impone al disoccupato l’accettazione – pena, come detto, la decadenza dal beneficio – di una “congrua offerta” di lavoro; offerta che, è bene precisarlo, potrà essere a tempo determinato o indeterminato, pieno o parziale.

Quando, allora, un’offerta può dirsi congrua? Qui viene il bello. Premesso che il decreto attuativo non è mai stato approvato, le indicazioni normative sono scarse e generiche. La distanza della ‘nuova’ occupazione non deve essere a più di 50 km dal domicilio del lavoratore. Il dato parrebbe chiaro ma, a rifletterci, così non è. Diversa è la situazione del lavoratore che debba affrontare 60 km (magari anche in treno) per percepire una retribuzione elevata, da quella del lavoratore chiamato, magari, a lavorare solo 4 ore affrontando 58 km di tragitto in macchina (nel traffico).

Ancora, quando la retribuzione proposta si può definire congrua? Il richiamo è (nello schema del decreto del 2016 mai attuato) a una riduzione non superiore al 20% rispetto al trattamento di disoccupazione percependo dall’Inps. Certo, ma potrebbe darsi il caso di un soggetto che non stia percependo alcuna indennità; in questa ipotesi non vi sarebbe un valido parametro di riferimento. In senso più ampio, poi, al fine di valutare la “congrua offerta”, occorre fare riferimento alle competenze, conoscenze e professionalità del lavoratore.

La questione della “equivalenza delle mansioni” è stata oggetto di rinnovati studi e dibattiti anche a seguito della modifica (apportata sempre dal Jobs act) dell’art. 2103 c.c.. In particolare, la disciplina previgente consentiva il mutamento a condizione che le mansioni precedenti e quelle nuove fossero equivalenti sia dal punto di vista oggettivo (pari contenuto professionale) che soggettivo (coerenza con il bagaglio professionale). Con le modifiche del 2015 la facoltà di mutare le mansioni del lavoratore incontra l’unico limite nel livello di inquadramento (che deve rimanere immutato). In quest’ottica, ci si chiede se anche la “congrua offerta” sia soggetta agli stessi parametri. La risposta parrebbe negativa. Il livello di inquadramento è un parametro che vale all’interno di un rapporto in essere ma pare neutro (o, meglio, non utilizzabile) in relazione ad una nuova assunzione.

Per dire, il quarto livello del ccnl Metalmeccanici (in ipotesi, ultimo livello raggiunto dal lavoratore) è equivalente al quarto livello ccnl Edili? Pare chiaro che si debba andare ad indagare sul contenuto delle mansioni e non sul livello di inquadramento. Occorrerebbe, dunque, una competente e obiettiva valutazione della professionalità del lavoratore in raffronto alla “proposta”. Cosa che, nei fatti, difficilmente avviene.

Premesse tutte queste criticità, permane il problema delle conseguenze scaturenti dal rifiuto dell’interessato alla “offerta congrua”; conseguenze che, spesso, non ci sono. Da una parte non vi è, infatti, una procedura dettagliata a livello normativo da seguire. Quindi, occorre una raccomandata? Oppure basta una telefonata per ricevere il rifiuto alla proposta? Nei casi in cui il soggetto preposto (che in Lombardia può essere tanto pubblico che privato) giunga alla determinazione di effettuare la cancellazione, l’Inps – ricevuta la segnalazione – andrà a richiedere tutta la documentazione relativa alla procedura seguita; documentazione che, tuttavia, spesso non c’è.

Ancora, la cancellazione viene tendenzialmente evitata anche per fuggire dal rischio di cause aventi ad oggetto il pagamento dell’indennità cessata e il risarcimento dei danni. Si arriva, però, così al paradosso: per evitare di subire potenziali cause da parte dei lavoratori gli Enti accreditati si espongono al rischio di danno erariale (concedendo soldi pubblici a soggetti che non ne avrebbero diritto). Torniamo al punto di partenza. Gli ammortizzatori sociali sono (purtroppo) necessari. Occorre, però, che i denari pubblici arrivino dove c’è diritto e necessità. Ciò nell’interesse, in primis, del lavoratore e, poi, della collettività.

* Avvocato giuslavorista nato e cresciuto a Milano. Da sempre difendo i diritti dei lavoratori. Senza abbandonare la mia storia, oggi guardo alla tutela dei diritti della persona in quanto tale.

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