Dunque la Sicilia non è cambiata. Chi si aspettava la rivoluzione a Cinque stelle è rimasto deluso. Alla fine hanno vinto i soliti. L’ineffabile Nello Musumeci, soprattutto il suo codazzo, rappresenta il peggio ed i siciliani, seguendo una consolidata tradizione, confermano la fatale attrazione per il peggio. Ascolteremo nelle prossime ore le solite litanie sul voto di scambio, sui posti promessi, sui favori. Certo, vi è tutto ciò. Ma va detto che, in larga misura, chi sceglie il peggio assai spesso lo fa senza alcun tornaconto personale. Lo fa per antica vocazione al servaggio, per precisa scelta di campo. I siciliani che si recano a votare – ormai ben al di sotto della metà degli aventi diritto – in larghissima maggioranza non subiscono un qualche ricatto. Scelgono, senza aver nulla in cambio, lo squallore di una politica che magari guardano schifati ma la considerano inevitabile e allora scelgono di starle accanto, un po’ per abitudine un po’ perché, alla fine, la cialtroneria seduce e molti con essa da sempre si identificano.

Gaetano Savatteri ha scritto un libro interessante nel quale contesta l’idea che si possa ancora leggere la Sicilia attraverso gli stereotipi della letteratura, da Tomasi da Lampedusa a Sciascia. Racconta con acutezza e precisione dei cambiamenti in atto sull’Isola. Purtroppo, con buona pace di Savatteri, se ci sono tante storie di cambiamento e di discontinuità, quello che non cambia in Sicilia è il Potere e non cambia neppure il rapporto dei Siciliani col potere. Rimane o di indolente delega, incarnata nell’astensione, che oggi si copre con l’alibi della “malapolitica”, che alibi è visto che non si compie neppure la fatica di votare, per esercitare un’azione degna di questo nome, oppure nell’ostinato perpetuare una precisa scelta di campo verso il peggio. I Sedarà comandano ancora e purtroppo quella radicale spinta di cambiamento che narra il volume di Savatteri resta isola nell’isola, assumendo paradossalmente connotati letterari.

Fatta questa premessa, una riflessione la merita quello che è accaduto al Pd. Per questo partito, forse il 5 novembre è stata una buona giornata. A volte perdere senza attenuanti, incassare un secco tre a zero, può essere utile. Può esserlo, però, solo se si hanno gli strumenti per usare la sconfitta. Gli strumenti stanno nei numeri. Il professor Micari incassa un consenso che, stando a primi dati, è di circa cinque punti sotto il voto raccolto dalle liste della sua coalizione. Significa una sola cosa: chi lo doveva sostenere ha usato il voto disgiunto, facendo votare la propria lista, ma un altro candidato presidente (verosimilmente Musumeci). Un’operazione decisa a tavolino per ricollocarsi rapidamente nelle nuova area di maggioranza. Il personale politico imbarcato in questi anni dal Pd in Sicilia è costituito da reduci della peggiore DC e dagli eredi (spesso anche biologici) dei vecchi notabili, con l’aggiunta di una pattuglia di ex Lombardiani ed ex esponenti di Forza Italia. Il Pd per fare massa ha imbarcato chiunque, mica solo gli uomini di Alfano e Cardinale. Com’era facile prevedere, alcuni hanno cambiato casacca prima delle elezioni, altri hanno tradito il professor Micari ad urne aperte. Questo è il famoso “centro”, perno del progetto politico di un genio assoluto come Davide Faraone (il vero grande regista della sconfitta del PD in Sicilia). Per correre dietro a questi figuri il Pd ha tagliato la sua ala sinistra. Al di la di ogni valutazione etica, si rileva che mettersi dentro questi personaggi in termini pragmatici è stata una perdita secca.

E poi c’è Angelino Alfano. La sua compagine giocava in casa ma verosimilmente non riuscirà a superare lo sbarramento per entrare nel Parlamento siciliano. Se Alfano ha questi numeri in Sicilia, immaginiamo che numeri avrà a livello nazionale. Eppure per tenersi in casa Alfano si è consumata in Sicilia la rottura con la sinistra considerata residuale, inutile, vecchia, lontana dalla logica di governo, solo perché sosteneva che con certa gente non si prende (per usare le parole di Libero Grassi) neppure un caffè. Ebbene oggi quella sinistra, guidata in Sicilia da Claudio Fava porta a casa, senza apparati, senza soldi, senza la sponsorizzazione delle gazzette di Mario Ciancio, un risultato dignitoso ed elegge in Parlamento forse cinque o sei deputati. Qualcuno per favore mandi un bel promemoria a Matteo Renzi.

Non sono tra quelli che dicono e diranno che Renzi deve andare a casa. Sarebbe cosa stupida. Di ragionare sì, di fare un passo di lato, dedicandosi a costruire su diversi contenuti politici e programmatici una coalizione e lasciandone la guida in campagna elettorale ad una personalità che non porti sulle spalle il peso delle sue sconfitte e delle sue non poche scelte sbagliate. L’uomo da mandare a Palazzo Chigi c’è ed è riconosciuto. Si chiama Pietro Grasso. Può servire a ricostruire un centrosinistra vero, senza Alfano e Verdini, ma con tanta gente che ad oggi resterebbe a casa schifata dal triste spettacolo a cui è costretta ad assistere. Un uomo che può vincere e governare. Ma bisogna capire se il Pd e Matteo Renzi vogliono vincere e soprattutto se vogliono cambiare rotta, visto che quella attuale punta dritto contro gli scogli.

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