“Io non vorrei dare l’impressione che noi ci autoassolviamo. Noi diamo i fatti, non i giudizi. Ci saranno stati anche molti errori, voi commissari avete i mezzi per individuarli e noi vi diremo se li consideriamo errori”. Queste poche frasi riassumono il senso dell’audizione durata quasi sei ore del capo della Vigilanza della Banca d’Italia, Carmelo Barbagallo, che come un disco rotto ha ripetuto le stesse cose che Via Nazionale dice da anni: la vigilanza ha vigilato, ha segnalato per tempo all’autorità giudiziaria gli illeciti riscontrati, non ha suggerito alcuna fusione tra Popolare Vicenza e Veneto Banca e, men che meno, tra Popolare Vicenza ed Etruria, gli ispettori di Bankitalia sono uomini irreprensibili che mai e poi mai si sono fatti condizionare dagli ex colleghi passati al soldo della banche vigilate e così via. Un’autodifesa che è uguale a se stessa da anni e che, ripetuta dinnanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta, mette però a nudo l’impotenza di quest’ultima che teoricamente avrebbe i mezzi per accertare la verità, ma non ha il tempo materiale né la volontà politica per farlo. Di qui l’arroganza di Barbagallo – che risponderà a molte delle domande dei parlamentari solo in un secondo momento e in forma scritta – che si spinge appunto a dire: “Noi vi diremo se li consideriamo errori”. La Banca d’Italia, da autorità indipendente, si pone ora al di sopra del Parlamento?

La linea è quella di negare tutto, anche a costo di rasentare il ridicolo, arrivando ad affermare che con l’ex patron della popolare vicentina Gianni Zonin “abbiamo sempre mantenuto la distanza di braccio necessaria fra vigilante e vigilato”. La stessa distanza che, ad esempio, ha permesso a Banca d’Italia di vendere a caro prezzo (9,3 milioni) la propria sede di Vicenza proprio alla popolare vicentina nel 2014, quando la banca raschiava il fondo del barile per passare d’un soffio gli stress test della Bce. Vendere la propria sede a un vigilato sull’orlo della bancarotta è un bel modo per marcare la distanza e fa sorridere quando Barbagallo afferma a proposito del presunto “ordine” ai vertici delle due banche venete di aggregarsi che “la frase ‘dare un ordine’ non mi appartiene”.

È assolutamente vero: non gli appartiene perché Barbagallo non ha mai avuto bisogno di ordinare alcunché per far capire ciò che lui stesso o Bankitalia vogliono. E l’aggregazione tra Veneto Banca e Popolare Vicenza era ben più che caldeggiata a Via Nazionale: era vista come l’unica possibile soluzione per evitare il crac. E’ il classico copione che prevede di nascondere la polvere e i buchi sotto il tappeto di un’aggregazione bancaria, da sempre la soluzione preferita dagli uomini di Via Nazionale. Le cose però sono andate diversamente (a Montebelluna hanno bocciato l’aggregazione), la vigilanza sui due istituti è passata alla Bce e si è aperta una strada inedita che ha mandato in tilt autorità di controllo e governo: la gestione di una crisi potenzialmente devastante all’epoca del bail-in. La Commissione d’inchiesta però non sembra intenzionata ad approfondire almeno per ora questo punto, che è però cruciale dato che con il via libera di Consob e Banca d’Italia si è tentata la strada di quotare due istituti di credito sostanzialmente falliti, fornendo al mercato e ai risparmiatori informazioni false. Barbagallo nel corso dell’audizione si è limitato ad ammettere che nei prospetti informativi degli aumenti di capitale delle due banche venete “nei fatti non c’erano informazioni sufficienti” per i risparmiatori e che sul tema “è opportuna una riflessione” e come i protocolli di collaborazione tra autorità e, in particolare, con la Consob siano “perfettibili”. Un po’ poco alla luce di quanto successo e dei miliardi di risparmi andati in fumo. 

 di Manolo Lanaro

Il punto è che la Commissione è del tutto inadeguata al compito e che qualche sprazzo di verità anche sui comportamenti omissivi, se non addirittura collusivi, delle autorità di vigilanza potrà arrivare solo dalle inchieste giudiziarie. Non tanto per l’attivismo dell’accusa (che, anzi, contesta quasi d’ufficio il reato di “ostacolo alla vigilanza” mettendo quindi automaticamente al riparo dalle accuse le autorità di controllo), quanto piuttosto per quello delle difese degli imputati. Qualche avvisaglia si è avuta al processo d’appello Mps in corso a Milano, dove i difensori di Giuseppe Mussari, Antonio Vigni e Gianluca Baldassarri hanno sostenuto che gli ispettori di Bankitalia durante i loro accertamenti avevano a disposizione ogni documento utile a conoscere l’operazione di ristrutturazione del derivato Alexandria che la banca realizzò tramite Nomura; quindi non ci fu nessun occultamento di perdite e, di conseguenza, nemmeno ci fu il reato di ostacolo alla vigilanza, tanto che gli ispettori avevano tra le loro carte il cosiddetto deed of amendment, cioè l’atto esecutivo dell’operazione con Nomura su Alexandria. “La documentazione era tutta a disposizione della Vigilanza, gli ispettori ce l’avevano”, ha sostenuto in aula uno dei difensori, aggiungendo polemicamente: “Chi ha nascosto cosa in questo processo? Abbiamo dovuto scoprire da noi che gli ispettori sapevano del documento”.

E non è l’unica sorpresa: secondo l’agenzia finanziaria Bloomberg, Bankitalia sapeva dal settembre 2010, due anni prima che la Procura di Siena venisse allertata, che Mps stava nascondendo una perdita di centinaia di milioni di euro verso Deutsche Bank, generata dal derivato Santorini. Un report, presumibilmente ispettivo, del settembre 2010 della Banca d’Italia, emerso nell’udienza del 3 ottobre, mostra – afferma Bloomberg – che gli ispettori erano consapevoli del fatto che l’operazione in Btp imbastita nel 2008 con Deutsche Bank era speculare rispetto a Santorini, su cui Mps stava perdendo 370 milioni a fine 2008.

Se dal processo d’appello di Mps emergono queste “perle”, peraltro documentate, chissà cosa salterà fuori dai processi sulle venete, su Etruria e sulle altre.

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