Sayfullo Saipov, 29 anni. Quarto terrorista originario dell’Uzbekistan a colpire in Occidente nel 2017 sotto le insegne dello Stato islamico. La catena di sangue iniziata a Capodanno, quando Abdulkadir Masharipov aveva fatto irruzione in una discoteca di Istanbul uccidendo 29 persone, era proseguita il 3 aprile, giorno in cui Akbarzhon Jalilov aveva azionato un ordigno esplosivo nella metropolitana di San Pietroburgo, uccidendo 14 persone. Quattro giorni dopo, Rakhmat Akilov aveva travolto con un camion la folla a Stoccolma, causando quattro decessi. Ora le 8 vittime di New York, cadute sulla ciclabile di Tribeca per mano di un estremista originario del Paese dell’Asia Centrale, fucina di combattenti della jihad. Estrema propaggine di una minaccia persistente che affonda le sue radici nelle stragi che l’11 settembre 2001.

Il presidente uzbeko Shavkat Mirziyoyev ha annunciato di voler collaborare alle indagini, ma nei radar delle autorità Usa il terrorismo uzbeko era finito da anni. E’ il 24 settembre 2001, 13 giorni dopo l’attentato alle Torri Gemelle, quando il Dipartimento del Tesoro rende nota una lista con i nomi delle 27 persone e organizzazioni i cui beni sono appena stati bloccati dal presidente George W. Bush: al 6° posto figura il “Movimento islamico dell’Uzbekistan“, appena 5 posizioni sotto alla vetta occupata da Al Qaeda. Con cui il movimento ha un rapporto osmotico fin dal 1990 quando, cacciati dal Tagikistan alla fine della guerra civile, i suoi membri si erano insediati nelle zone tribali del Pakistan. Considerato il principale gruppo di estremisti dell’Asia centrale, negli anni sarebbe confluito nel Movimento islamico dell’Asia centrale (Miac) con lo scopo di rovesciare i leader post sovietici per instaurare la sharia, la legge coranica, e dare vita a un califfato islamico in quest’area strategica compresa tra la Cina, la Russia e l’Afghanistan.

Nel febbraio 2004 il direttore della Cia George Tenet includeva “gli integralisti islamici dell’Uzbekistan” tra i gruppi qaedisti più pericolosi al mondo insieme alla rete capeggiata da Abu Musab al Zarqawi, al gruppo Ansar al Islam in Iraq e al Gruppo islamico combattente libico. In quei mesi il pericolo raddoppiava, quando da una scissione interna al movimento nasceva il Gruppo della jihad islamica, che a giugno compiva attacchi coordinati nella capitale Tashkent contro le ambasciate degli Usa e di Israele e nel 2005 veniva inserto dal Dipartimento di Stato degli Usa nella lista delle organizzazioni terroristiche.

Sono gli anni in cui a finire nel mirino sono l’Europa e le sedi delle istituzioni americane nel continente. Il 5 settembre 2007, a pochi giorni dall’anniversario di Ground Zero, la polizia tedesca arrestava tre giovani militanti islamici sospettati di preparare attentati stragisti contro obiettivi americani in Germania, tra i quali la base militare Usa di Ramstein. Doveva essere, secondo la definizione del pubblico ministero Volker Brinkmann, una ”strage senza precedenti”, progetto subito rivendicato dagli uzbeki del Gruppo della jihad islamica. L’obiettivo dichiarato era quello di punire il governo Merkel per la partecipazione della Germania alla guerra in Afghanistan. Della quale lo stesso Uzbekistan era stato protagonista fin dai giorni successivi all’11/9, quando il governo di Tashkent aveva dato la disponibilità ad accogliere 1000 soldati Usa e a fornire a Washington le sue basi militari per colpire i talebani oltreconfine.

La pista del terrorismo uzbeko che lega la Germania agli Stati Uniti torna a galla tre anni più tardi, quando nel settembre 2010 Der Spiegel svela i piani della cellula di Amburgo, accusata di avere avuto un ruolo diretto nelle stragi dell’11 settembre e ora sospettata di preparare attacchi in tutta Europa. Il trait d’union è Ahmad Siddiqui, 36 anni, membro del Movimento islamico dell’Uzbekistan: arrestato ai primi di luglio a Kabul, l’uomo frequentava la moschea di Taiba nella città tedesca e lì era entrato in un network che metteva in collegamento Said Bahaji, allora ricercato per complicità negli attacchi dell’11/9, Mounir el Motassadeq, già condannato a 15 anni di reclusione con la stessa accusa, ma soprattutto Mohamed Atta, il principale organizzatore ed esecutore materiale dell’attacco al World Trade Center.

La minaccia si concretizza sul suolo americano nel 2013: il 17 maggio Fazliddin Kurbanov viene arrestato nell’Idaho perché trovato in possesso dei componenti necessari a costruire un ordigno esplosivo. Non solo: secondo la polizia, nei mesi precedenti l’uomo aveva fornito software e denaro al Movimento Islamico dell’ Uzbekistan per contribuire a commettere un crimine che prevedeva ”l’utilizzo di armi di distruzione di massa”. Due mesi più tardi, il 23 agosto, il presidente yemenita Abd Rabbo Mansour Hadi rivela che all’origine dell’allarme terrorismo lanciato agli inizi del mese da Washington cui era seguita la chiusura di 19 ambasciate c’era stata una telefonata tra il capo di Al Qaeda nella penisola araba Nasser al-Wuhayshi e il leader di Al Qaeda Ayman al-Zawahri in cui si parlava di questa nuova azione clamorosa: un “attentato che cambierà la storia” di cui avevano parlato in una conversazione multipla intercettata dall’intelligence Usa anche alcuni esponenti qaedisti uzbeki.

A ottobre 2014, tre mesi dopo il proclama lanciato da Abu Bakr Al Baghdadi dal pulpito della moschea di Mosul, il Movimento islamico decide per la conversione e la nuova vita sotto le insegne nere del califfato: “In nome di tutti i membri e in accordo con i nostri sacri doveri – si leggeva in un comunicato – dichiaro che siamo negli stessi ranghi del gruppo Stato Islamico in questa guerra tra l’Islam e i kufr“, i miscredenti. E negli Stati Uniti si moltiplicano le adesioni. Il 25 febbraio 2015 tre giovani residenti a Brooklyn pronti a partire per la Siria vengono fermati tra New York e la Florida. I tre – Abdurasul Juraboev, 24 anni, Akhror Saidakhmetov, 19 anni, e Abror Habibov, di 30 – avevano attirato l’attenzione dell’Fbi con i loro commenti postati sui social network. Jaraboev, residente nella Grande Mela e originario dell’Uzbekistan come Habibov, si diceva pronto a “sparare a Barack Obama“: “Questo – scriveva – instillerà la paura nel cuore degli infedeli”.

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