Una nota per difendersi dalle critiche. Una in particolare: aver svolto in maniera frettolosa e superficiale le indagini sulla morte di David Rossi, il manager di Mps trovato senza vita la sera del 6 marzo 2013 nel vicolo sotto la finestra del suo ufficio. Ieri il presidente del tribunale, Roberto Carrelli Palombi e il procuratore capo, Salvatore Vitello, hanno firmato e diffuso un documento di sette pagine nelle quali è indicato come hanno agito e perché, per due volte, la morte di Rossi è stata archiviata come suicidio.

Un’iniziativa senza precedenti. Che rappresenta quasi un autogol perché nel testo c’è la conferma di non aver seguito la procedura standard della polizia scientifica: sequestrare ogni elemento, repertarlo, analizzarlo e conservarlo. Si ammette, inoltre, di aver agito sulla base di una convinzione non suffragata dalle indagini ma semplicemente da una deduzione, sensazione avuta nell’immediato, prima ancora di svolgere le indagini. La convinzione che si trattasse di suicidio. Per questo, scrivono, non hanno sequestrato tutti i reperti, non hanno ritenuto necessario analizzare vestiti, fazzoletti di carta sporchi di sangue; non hanno infilato in un sacchetto di plastica il cellulare ma lo hanno usato anche per rispondere a una chiamata (risulta dalle carte: quando gli inquirenti erano nell’ufficio di Rossi subito dopo la sua morte, qualcuno di loro risponde per 23 secondi a Daniela Santanché). Ancora: non hanno cercato Dna o tracce ematiche nell’ufficio; non hanno acquisito e sequestrato i video delle 12 telecamere di sorveglianza ma solamente di una; non hanno compiuto gli esami istologici sulle ferite rilevate sul corpo del manager; non hanno individuato i presenti nella sede di Mps né si sono accertati che esistessero dei registri; non hanno convocato e sentito le persone che nella giornata avevano incontrato Rossi (uno su tutti: il fratello Ranieri, che con lui aveva pranzato). E molto altro. La sintesi è nell’intervista rilasciata al Fatto pochi giorni fa dall’ex procuratore Capo di Firenze, Ubaldo Nannucci: “La procedura standard a quanto pare non è stata seguita”.

Tutto questo, ammettono nella nota congiunta Palombi e Vitello, non è stato compiuto perché sin da subito si è ipotizzato il suicidio. Ma la magistratura inquirente non dovrebbe compiere le indagini e arrivare a una conclusione in base a riscontri accertati e concreti?

Non solo, nel documento si leggono con frequenza frasi come “col senno di poi”, “ex post”. In particolare per quanto riguarda i vestiti e i fazzoletti sporchi di sangue. I primi andati distrutti il giorno dopo la morte di Rossi, gli altri distrutti dal pm, Aldo Natalini, prima ancora che il gip avesse emesso decreto di archiviazione o disponesse un possibile supplemento di indagini. Ebbene, per quanto riguarda i primi, si legge nella nota, “la critica che si muove alla Procura della Repubblica è di non aver provveduto al sequestro. Ragionando ex post la critica è comprensibile”. Ma, prosegue, “bisogna però calarsi nel contesto iniziale quando appariva a tutti chiaro l’evento suicidiario”. La “prova determinante”, secondo Vitello, “era costituita: dalle lettere di addio, dagli esiti dell’ispezione medico legale e dalla relazione autoptica, dall’assenza di tracce di colluttazione o di terzi nell’ufficio da dove il Rossi è precipitato, dalle mail del 6/3/2017, dalla descrizioni delle condizioni psicofisiche del Rossi offerte dai sommari informatori e in particolare dalla dottoressa Ciani (psicologa che intervistò il Rossi la mattina stessa dell’evento”. Questo si legge nella nota. Ma gli atti dicono altro. Molto altro.

I vestiti sono stati distrutti il giorno successivo alla morte di Rossi. Quindi il 7 marzo 2013. La perizia del medico legale è stata depositata il 4 maggio successivo. Quindi due mesi dopo. Le tracce di colluttazione o di terzi non sono state cercate eppure gli stessi periti della procura nel 2015 concludono sostenendo che Rossi è stato percosso prima di cadere dalla finestra. Le mail del 6 marzo sono state portate all’attenzione degli inquirenti e allegate agli atti solamente l’8 marzo, il giorno successivo alla distruzione dei vestiti. Le persone sentite e in particolare la dottoressa Ciani (citata nella nota), è stata escussa il 13 marzo 2013. Dunque rimane la domanda: perché il 7 marzo a Siena invece di seguire la procedura standard e sequestrare, analizzare e conservare per almeno due anni o comunque fino alla conclusione delle indagini e al decreto di archiviazione del gip tutti i reperti, i vestiti sono stati invece andati distrutti? Certo, specifica la nota: “I vestiti non sono stati sequestrati e, conseguentemente, non essendo nella disponibilità della Procura della Repubblica non potevano essere da questa distrutti”. Già: non sono stati sequestrati.

Sequestrati dalla procura, invece, è distrutti dalla procura altri reperti fondamentali: sette fazzoletti sporchi di sangue trovati nell’ufficio di Rossi. Cosa spiega la nota in merito?

“È stata determinante la progressiva acquisizione di inequivoci elementi che davano fondamento all’ipotesi suicidiaria (spontanea, senza istigazione alcuna) e, nello specifico, la riconducibilità dei fazzolettini (…) alle lesività cutanee constatate su entrambi i polsi sin dal primo sopralluogo”. Certo. Eppure gli stessi periti della Procura nel 2015, quando il magistrato Andrea Boni riapre il fascicolo, sono costretti a limitarsi alle foto dei fazzoletti e concludono che sarebbe stato utile averli perché la forma della macchia di sangue è compatibile con la ferita al labbro di Rossi, non a quella dei polsi. Ma anche qui, “col senno di poi”. Nella nota viene riportata anche una parte della perizia svolta per la procura dal Colonnello dei Ris dei Carabinieri Davide Zavattaro. “Le macchie di sangue potrebbero dunque essere dovute ai tamponamenti su una di queste ferite e, in particolare, la forma triangolare e la dimensione delle tracce, potrebbe essere ricondotta a quella del labbro inferiore (…). In questa ipotesi la ferita tamponata sarebbe dunque occorsa nell’intervallo di tempo tra le 18 e le 19,20, ovvero prima della precipitazione”. Quindi nel 2015 si ipotizza non solo una colluttazione ma anche delle ferite. Mentre, come da atti, i tagli superficiali ai polsi Rossi li aveva almeno dal 5 marzo, come messo a verbale dai familiari del manager, Antonella Tognazzi e Carolina Orlandi.

Si arriva così al punto cinque della nota, dedicato alle “persone presenti nella sede”. Come è stato accertato chi c’era? In base alla testimonianza di Lorenza Bondi che ai magistrati dice: “Non penso ci fosse qualcun altro. Sicuramente dell’ufficio stampa non vi era più nessuno (..) e nessuno dell’ufficio segreteria”. Punto. Nel 2015, quando il solito Boni riapre le indagini cosa fa? Chiede a Mps i video di sorveglianza interni, i registrati degli ingressi e delle uscite di quella sera, l’elenco delle telefonate dagli uffici. Nel 2015 però. Troppo tardi: è stato cancellato tutto. Se queste indagini fossero state compiute nel 2013 forse oggi non ci sarebbero tutti questi dubbi.

Il punto sei della nota è il motivo per cui le sette pagine sono firmate anche dal presidente del Tribunale: l’omessa audizione di Pieraccini Lorenza. Il giudice per le indagini preliminari Malavasi nel suo decreto di archiviazione scrive che Pieraccini è stata sentita a verbale. In realtà, come hanno rilevato le Iene, non è mai stata sentita. Il gip risponde al presidente del Tribunale e non alla Procura, per questo motivo quindi c’è anche la firma di Palombi. Il gip scrive nell’archiviazione: “Le attività investigative richieste a tal fine dagli opponenti – sentire a sommarie informazioni Fabrizio Viola, le sue segretarie, la Pieraccini ed altri colleghi di Rossi, acquisire le mail presenti nella sua casella di posta, ricostruire i suoi movimenti – sono già state tutte compiute”. Ebbene la nota puntualizza in merito: “Sebbene l’espressione non sia puntuale il significato della frase è inequivoco: l’audizione della Pieraccini non avrebbe aggiunto alcunché al quadro probatorio già cristallizzato”. Talmente cristallizzato da spingere un procuratore capo e un tribunale a dover firmare e divulgare un comunicato stampa di sette pagine. Procure e Tribunali solitamente parlano con gli atti. Non a Siena. A quanto pare.

La nota prosegue poi in merito ad altri dubbi o carenze rilevate nelle indagini: la caduta dell’orologio, l’ufficio, il cellulare, l’ombra all’ingresso nel vicolo dove è stato trovato il cadavere. “Si intende ribadire che i magistrati di questi uffici hanno il solo ed esclusivo interesse di accertare la verità e in funzione di ciò esprimono ampia disponibilità a valutare e approfondire qualsiasi aspetto che possa essere stato non adeguatamente approfondito”. A distanza di quattro anni? Con i reperti non analizzati e distrutti? Elementi fondamentali come video e tabulati non acquisiti e andati persi? La nota conclude con queste parole: “Si spera che, fermo restando il diritto a critica di quanto già compiuto, analogo rispetto per il ruolo e la dignità di questi uffici e l’onorabilità dei magistrati sia tenuto da chi ha a cuore le istituzioni”. Proprio per il profondo rispetto nelle istituzioni e nell’assoluta convinzione che la magistratura sia l’unica forma di giustizia possibile in un Paese democratico è doveroso criticare indagini che sembrano lacunose. I riscontri non si trovano “con il senno di poi”.

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