Facile dire a un giovane che lavora all’estero che dovrebbe tornare in Italia per aiutare la crescita del suo paese. Ma cosa direste se quel giovane non riuscisse a tornare in Italia? Perché frequentare l’università all’estero, per quanto si siano spesi anni sui banchi delle più prestigiose università europee, può volere dire non vedere il proprio titolo di studio riconosciuto in Italia. E quindi, essere messi di fronte a una scelta che significherebbe annullare i propri sforzi. Conosce bene questa situazione Ottavia Benedicenti, ricercatrice 34enne che ha passato gli ultimi otto anni di formazione e lavoro all’estero. “Un ente di ricerca pubblico italiano mi ha offerto un posto di lavoro perché sono qualificata e apporterei ricchezza in termini di ricerca scientifica”. Eppure tornare in Italia per Ottavia sarà molto difficile per problemi di equiparazione tra corsi di laurea, un processo “che costa almeno 200 euro, con lunghi tempi e non assicura che alla fine l’equiparazione sarà possibile”.

Dopo la triennale in scienze ambientali marine a Genova, Ottavia ha fatto la specialistica in oceanografia biologica a Kiel, in Germania, e al momento sta facendo un dottorato in Scozia sul sistema immunitario dei pesci. Eppure, la 34enne non è certa che la sua specialistica tedesca e il suo Ph.D. saranno validi nel Belpaese “perché non c’è un corso di laurea esattamente simile al mio in Italia”. Infatti, un requisito fondamentale per potere accedere a concorsi o essere assunti, in Italia, è proprio questa equiparazione del corso di studi fatto all’estero. “Un sistema antiquato visto che siamo uno dei pochi paesi a mettere queste restrizioni. Per esempio, ho fatto domanda per assegni di ricerca e post dottorato in altri stati europei e in tutti i casi i miei documenti di specialistica e Ph.D. sono stati sufficienti”.

Se stai via dell’Italia per un po’ di tempo, devi mettere in conto che non tornerai

Paradosso della storia è che la 34enne di Milano aveva scelto di specializzarsi in Germania proprio perché a Genova c’è pochissima ricerca sui pesci di allevamento. “Sapevo che mi sarei dovuta spostare per seguire i miei studi”, racconta Ottavia. Forse, quel che non sapeva è che non avrebbe più potuto tornare indietro. “Se stai via dell’Italia per un po’ di tempo, devi mettere in conto che non tornerai”.

Non che la giovane ad Aberdeen, terza città più popolosa della Scozia che si affaccia sul mare per un lungo tratto di costa sabbiosa, stia male. Qui ha vinto una borsa di studio per un dottorato in immunologia dei pesci con qualifica finale in biologia molecolare. “In Scozia gestisco io stessa il budget per il mio laboratorio. Inoltre la mia ricerca e le mie pubblicazioni sono state fatte da me e solo dopo revisionate dai miei referenti, mentre so che in Italia, alcune volte, sono i professori a scrivere le pubblicazioni per gli studenti del primo livello o a decidere la linea di ricerca”. E la favola è sempre la stessa, come se tutti i ricercatori italiani si fossero messi d’accordo nel descrivere i limiti di uno stivale in cui burocrazia e leggi non permetterebbero di lavorare a piene opportunità. “Ad esempio, in Italia per ogni strumento di laboratorio da riparare devono essere fatte gare d’appalto, mentre all’estero telefoni direttamente alla casa produttrice e nel giro di 24 ore si presenta il tecnico”. Se l’Italia offrisse ambienti dinamici e meno burocratizzati, secondo la 34enne, “nessuno andrebbe via dal suo paese”.

In Italia per ogni strumento di laboratorio da riparare devono essere fatte gare d’appalto. All’estero telefoni nel giro di 24 ore si presenta il tecnico

Perché “l’estero non è il paradiso”. Ad esempio, “a livello di borsa di studio prendo quanto i miei colleghi che fanno il dottorato in Italia, ma le spese molto più alte per vivere”. Tanto che la vita di Ottavia non è per nulla facile. “Con la mia borsa di studio mi mantengo ma non risparmio niente e devo rinunciare a molte cose”. E infatti Ottavia non ha una macchina, non ha una televisione per non pagare il canone e limita molto uscite e spese. “Anche noi siamo immigrati, sicuramente molto fortunati, ma ci siamo comunque dovuti integrare in realtà diverse dal nostro paese”.

Eppure, non sono solo difficoltà economiche quelle che racconta la giovane ricercatrice. È un senso di fatica, il non sentirsi mai parte integrante della società in cui si vive. “L’esperienza all’estero non è semplice, ti scontri sempre e comunque col problema dell’essere immigrato, e ogni tanto la battutina ‘pizza, mafia e mandolino‘ la ricevi anche da persone di un certo spessore culturale”. Una condizione che secondo Ottavia accomuna tutta la sua generazione, “costretta a muoversi ogni tre-quattro anni per lavoro o studio”, mentre l’Italia sembra non essere al passo coi tempi. “Molti italiani sognano ancora di comprare casa e costruire una famiglia nel posto in cui sono nati, ma questo non è più possibile e al giorno d’oggi la migrazione è diventata necessaria per tutti”. La stessa biologa, infatti, dopo il dottorato probabilmente cambierà paese per cercare opportunità lavorative e questo significherà nuovi amici, nuova casa e nuovi colleghi. “Vuoi sapere cosa è successo a quanti, della mia generazione, sono stati costretti a lasciare l’Italia? In sintesi, non c’è più un posto che uno possa definire casa”.

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