di Dafni Ruscetta e Giuseppe Elia Monni

I recenti fatti catalani mostrano che la riemersione dei nazionalismi in molti Paesi europei rappresenta un vero e proprio corto circuito che sta innescando dinamiche disgregatrici all’interno degli stessi Stati nazionali. Tra le cause di tale riemersione vi sono certamente il crollo delle ideologie sovranazionali; la crisi economica più lunga dal Dopoguerra, che ha peggiorato le condizioni di vita di ampi strati della popolazione, alimentando la crescita di giovani sfiduciati rispetto al futuro dopo decenni di generazioni precedenti ottimiste; e più in generale la crisi dei modelli economici globali connessi all’aumento del potere delle multinazionali e della finanza internazionale.

Ma in Europa c’è un fattore ulteriore: il processo di integrazione politica incompiuto. Questo ritardo sta alimentando le spinte nazionaliste, ma soprattutto quelle regionaliste. Se l’integrazione europea fosse stata più rapida e benefica in termini di ricchezza e di equità, i singoli Stati avrebbero pian piano ceduto pezzi importanti di sovranità senza fomentare i nazionalismi, i quali fanno leva da una parte sulla nostalgia per la sovranità perduta e, dall’altra, sulla obiettiva incapacità dell’Ue di garantire una qualità della vita migliore per tutti i cittadini. Col paradosso che proprio le conseguenze del fallimento storico degli Stati nazionali vengono imputate, oggi, al processo di integrazione europea, che ne sarebbe potuto essere invece il rimedio.

Alla crisi del processo di integrazione europea si risponde, oltre che col nazionalismo, anche col regionalismo. Con la differenza che, mentre il primo vede l’Ue come antagonista, il secondo (per adesso) guarda all’Europa con speranza e confida che una maggiore integrazione porti finalmente a quella “comunità di popoli”, che non potrà mai realizzarsi finché gli Stati nazionali continueranno a essere gli unici “azionisti” dell’Unione.

Ci troviamo in questo corto circuito. E se l’integrazione europea non giungerà in tempi rapidi a essere quantomeno percepita come una comunità di popoli, è probabile che anche i regionalisti non guarderanno più con speranza all’Ue ma si illuderanno – come già s’illudono i nazionalisti – che le sfide del nostro tempo potranno essere affrontate meglio con l’isolazionismo invece che con l’integrazione.

Su tutto questo si è poi aggiunto il fenomeno dell’immigrazione che tuttavia, a nostro parere, non avrebbe suscitato tanta apprensione – e gravissime dinamiche xenofobe – se non fosse calato su una situazione già precaria e se una parte delle classi dirigenti non avesse cavalcato o addirittura fomentato tali allarmismi. Anche i mezzi di comunicazione assecondano questa dinamica: i moderni luoghi di scambio sociale, i nuovi media, spesso esprimono posizioni reazionarie, dettate da retaggi ideologici assimilabili più a una tifoseria calcistica.

Il caso emblematico di come si combinarono virtuosamente i processi confederativi sovranazionali e l’immigrazione fu l’origine degli Stati Uniti. In quel contesto l’immigrazione non fu quasi mai un problema ma anzi una risorsa, andando a costituire addirittura il dna della Nazione che stava nascendo. Il sogno americano, di cui si è nutrita la mitologia identitaria di quel Paese, era rappresentato proprio dal breve passaggio da immigrato straniero a cittadino americano, che dipendeva solo dalla condivisione di alcuni principi di civile convivenza (e di laboriosità).

Servirebbe dunque una classe dirigente transnazionale capace di spiegare che proprio il processo di integrazione europea può al tempo stesso superare gli egoismi nazionali, soddisfare le esigenze locali che chiedono rappresentanza, e gestire il processo di integrazione degli immigrati. Il nazionalismo, invece, non può essere un agente dell’integrazione. Esso, infatti,  ed è questo il punto che molti nazionalisti non hanno ancora compreso, risulta essere un fattore di disgregazione di quella nazione stessa che ci si vorrebbe illudere di congelare storicamente.

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