Torniamo ad approfondire con Paolo Giovannetti alcuni aspetti del suo ultimo libro, La poesia italiana degli anni Duemila (Carocci editore).

Seconda puntata.

(clicca qui per leggere la prima parte)

Caro Paolo, rifletti a lungo sulla poesia di “ricerca” e/o d’avanguardia, un tema dibattutissimo sino alla fine del secolo scorso. Data per scontata la fine della funzione normativa della Tradizione, che rende pleonastica, qualsiasi Avanguardia, non credi che sia possibile ritagliare uno spazio di ricerca in ciascuno degli ambiti poetici che tu individui, a patto che quella poesia si assuma il “rischio” di sfuggire alla ripetizione meccanica del già fatto?
No, così giochiamo con le parole, e io preferisco la fenomenologia povera di cui ti parlavo nella prima parte di questa discussione. Quando diciamo “poesia di ricerca” ci riferiamo a esperienze odierne che si sentono ancora interne a una paradossale tradizione dell’avanguardia e della neoavanguardia, italiana ma anche francese e americana. I “ricercatori” – nota bene – sono dei grandi storicisti e, almeno un po’, vivono nel culto dei loro padri, anche perché hanno chiara l’idea di un superamento, di una rottura, di un confine da valicare. Questo non è un discorso che possa valere per altre tribù di poeti, che pensano e agiscono diversamente. In fondo, un lirico può plasmarsi in modo meno agonistico, può accettarsi come “vecchio”, “desueto” ecc. La grande lezione di Saba, vivaddio! Qui, non si ricerca, si trova.

Bisognerebbe chiedersi se gli autori “di ricerca” siano fuorusciti dal paradigma neoavanguardistico. Secondo me, sì, in larga parte. La lingua, lo stile, oggi contano meno di un tempo. La poesia che si vuole di rottura si sta concettualizzando e si confronta con le arti visive. Incide meno per quello che fa, con gli strumenti del linguaggio, che per quello che rappresenta, con la materialità delle proprie relazioni. Tende a diventare installazione, parola-cosa, da guardare prima che da leggere, e chiede uno spettatore o un visitatore, prima che un lettore.

Tu rilevi la crescente importanza della poesia performativa, orale. Si tratta certamente di un’oralità ‘secondaria’, se non addirittura di terzo grado rispetto a quella delle origini. Si parte comunque da un testo scritto. Come tutto questo sta influenzando le forme metriche della poesia nella contemporaneità?
Da molti anni mi chiedo cosa stia diventando la vecchia sensibilità ritmica italiana sotto la pressione della canzone e del rap, ma adesso anche delle pratiche performative. Sta forse nascendo una specie di “neometrica” in cui la vetusta parola italiana, placidamente polisillabica, viene dissezionata da certi ritmi, da certi beat? È una cosa bellissima, divertentissima. I giovani ci stanno a proprio agio, e non è un caso se i rapper e slammer “immigrati”, di origine cioè non italiana, diventano sempre più frequenti. Fanno a pezzi l’italiano, e ne ringiovaniscono – almeno un po’ – la prosodia.

Quali competenze dovrebbe sviluppare la critica letteraria per oggetti artistici pluriversi come questi, che non si limitano più all’aspetto testuale, alfabetico, ma coinvolgono integralmente il suono o la percezione iconica?
In questi casi io ragiono da parruccone. Studiate, studiamo, tutto quello che vi e ci serve! Cos’altro dire?

Il tuo testo si concentra anche sulla poesia in rete. Il fenomeno è largamente diffuso anche in Italia, non credi però che si tratti soprattutto di un utilizzo strumentale del web? Si mettono online i medesimi contenuti che sarebbero andati a stampa, a me paiono davvero poche le esperienze che cercano di sfruttare altre qualità della rete, come per esempio l’interattività, l’ipertestualità, lo sviluppo di forme autoriali collettive. L’eredità di Toti e Balestrini è persa?
Secondo me, semplifichi. La poesia elettronica esiste ed è viva e vegeta. In rete date un’occhiata qui e troverete qualche utile informazione. È un mondo a parte, lo so, separato dal senso comune ancora di più della poesia-poesia. Ma esiste e chiede di essere capito. Vedi mai che possa servirci da coscienza critica per le cose che ogni giorno facciamo con i computer in Rete, credendo che siano naturali. La poesia elettronica, forse, ci mette in contatto con la “grana”, la “ruvidezza” dei bit, con l’inconscio dei computer.

La rete è ritenuta nemica della critica letteraria professionale: il rischio è quello di confondere il numero dei like con le reali qualità artistiche di un’opera. D’altra parte, mai la poesia, o comunque qualcosa che si autonomini tale, era stata così diffusa e in rete trovano spazio anche ottimi prodotti poetici e critici. Qual è il salto di paradigma che è richiesto a voi critici per affrontare la contemporaneità digitale?

Il salto di paradigma – e fai bene a usare quest’espressione – è niente meno che la perdita d’aureola della critica. Dove troppi parlano, noi professionisti della critica dobbiamo accettare di confrontarci con il blabla infinito. Laicamente, direi che dovremmo tirarcela un po’ meno e cercare di farci capire meglio. In teoria, dovremmo avere le idee più chiare perché – sempre in teoria – dovremmo aver studiato di più. E quindi, cerchiamo di imporre qualcosa come la chiarezza, pochi discorsi ma precisi, anche se – in ogni caso – problematici. Less is better

Articolo Precedente

Pierluigi Pardo e “Lo stretto necessario”, il romanzo con il calcio sullo sfondo

next
Articolo Successivo

‘Un giorno di festa’, il terrorismo secondo Enrico Pandiani

next