Enrico Mentana ha riassunto lo scontro Spagna-Catalogna in termini calcistici: il primo tempo al Barcellona ma il secondo al Madrid.

Restando nella metafora, potremmo aggiungere che l’insolita congiuntura fa sembrare goleador un mezzo bidone come Mariano Rajoy, per di più gravato da cartellini gialli per scandali di partito, mentre il presidente della Generalitat, Carles Puigdemont, si è rivelato nel corso del match un inconcludente dribblomane.

Purtroppo le cose sono molto più complicate di come appaiono e ce le vogliono raccontare i terribili semplificatori, quelli che sproloquiano di “questioni interne”, “rispetto della legalità costituzionale” e altre banalità leguleie.

Difatti le vicende di questi giorni – iberiche, ma non solo – rivelano a chi vuol vederle (e non si trincera dietro le rassicuranti certezze di rappresentazioni ormai al lumicino) l’emergere di rotture dei paradigmi concettuali con cui da secoli si inquadrano i processi socio-politici a Occidente: l’insanabile usura dello Stato-nazione quale perimetro di governo delle dinamiche significative; l’incapacità della politica organizzata e delle istituzioni che la strutturano di rappresentare una serie di domande, in crescente fuoriuscita dai loro perimetri.

Dunque, la manifesta incapacità delle élites statuali che costituiscono il “concerto di Bruxelles” (il ponte di comando europeo) di misurarsi con la sfida epocale in corso.

Eppure i segnali sono evidenti quanto crescenti; non c’è solo la Catalogna a voler rompere il patto nazionale. Sino a ieri c’era la Corsica con la Francia, la Scozia ha da sempre un piede sull’uscio dal Regno Unito e le spinte centrifughe in Italia sono da tempo molteplici (al netto dalle strumentalizzazioni). Il motivo per cui l’Unione europea ha deliberatamente assunto un atteggiamento ponziopilatesco nella querelle spagnola, visto che la rottura catalana costituirebbe un precedente dai molti rimbalzi pericolosi. Ma questi ceti politici, in connessione con le tecnostrutture di Bruxelles, stanno accendendo i loro ultimi fuochi; mentre i due attori egemoni dal secondo dopoguerra – i partiti socialdemocratici e quelli popolari/democristiani – si riducono ai minimi termini, scivolando sovente nell’insignificanza. Mentre le formazioni autoproclamate fuori dai tradizionali schemi distintivi – né di destra, né di sinistra – rischiano di risultare meteore: la luna di miele dei francesi con Macron sembra arrivare al capolinea e qui da noi i Cinquestelle prenderanno alle prossime elezioni molti voti che non si tradurranno mai in maggioranza di governo.

La liquefazione di un intero assetto del Potere – già ferreo – che oggi diventa evidente nell’incapacità del format statual-nazionale, inventato in quel di Westfalia nel remoto 1648, di rinnovarsi assorbendo le spinte centrifughe; senza ricorrere a intimidazioni e pratiche repressive, alla lunga suicide. Come sta palesemente a dimostrare la vicenda spagnola; e la figura risibilmente fuori registro del suo monarca travicello, mentre pronuncia severi quanto insignificanti discorsi alla nazione.

Perché la nazione non c’è più se i cittadini non si sentono più tali. Quando cresce la percezione del ribaltamento in corso di tutti i referenti spaziali. Come ha recentemente scritto Massimo Cacciari (per una volta in maniera convincente): «Se un Ordine si imporrà domani sarà quello dell’equilibrio tra grandi spazi economico-politici retti in forme federalistiche e imperi, necessariamente alieni da procedure democratiche assimilabili a quelle inventate nella vecchia Europa». Insomma, le antiche sovranità nazionali hanno perso completamente la loro presa e ben altro tipo d’Europa potrebbe costituire il grande spazio federale di cui parla Cacciari. Ma i protagonisti continentali continuano a recitare il vieto repertorio con effetti sempre più grotteschi. A cominciare dal Rajoy che si atteggia a duro e dal Puigdemont che si avvita su se stesso.

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