“La prima volta che sono partito in mare la Guardia costiera libica ci ha intercettato e ci ha riportato a terra. Ci ha condotto in una prigione a Zawiya che si chiama Ossama Prison. Lì ti picchiano e ti torturano, ma se si paga il riscatto si è sicuri che si verrà rilasciati, cosa non sempre vera per le altre prigioni. Questo posto viene monitorato da una commissione di europei una volta al mese. Durante la visita mensile le guardie fanno sparire tutti gli strumenti di tortura, le catene e aprono tutte le celle così che sembri un campo profughi piuttosto che una prigione. Poi quando la visita è finita tutto ricomincia come prima”. X.Y. ha 25 anni, arriva dal Camerun. A luglio, nell’hotspot di Pozzallo, ha raccontato la propria odissea agli operatori di Medici per i Diritti Umani, organizzazione di solidarietà internazionale che ha pubblicato ESODI 2017, la nuova web map sulle rotte migratorie dai Paesi sub-sahariani verso l’Europa.

Duemilaseicento le testimonianze raccolte tra il 2014 e il 2017, di cui oltre la metà soltanto nell’ultimo anno. Il cammino verso l’Italia emerge come una discesa all’inferno. La situazione più drammatica è in Libia come testimoniano i racconti dei migranti in questi giorni a Tripoli, Sabha, Gharyan, Beni Walid, Zawiya e Sabrata. “Siamo stati portati in una prigione vicino Tripoli che si chiama Mitiga – ha raccontato I., 20 anni, partito dalla Costa d’Avorio – sono stato picchiato tutti i giorni, torturato mentre i miei familiari assistevano per telefono per convincerli a pagare un riscatto. Mi legavano le gambe e mi appendevano a testa in giù e poi colpivano con forza sotto i piedi. A volte mi versavano addosso dell’acqua gelata e poi mi colpivano su tutto il corpo con dei tubi di plastica dura. Una volta un arabo mi ha tagliato con un coltello sulla mano. Ho visto molte persone venire uccise per futili motivi, a volte solo per divertimento“.

Gli accodi stretti dal governo Gentiloni e dall’Ue con Tripoli e con Paesi come Niger e Sudan hanno ridotto gli imbarchi dalle coste libiche. Così centinaia di migliaia di migranti sono rimasti bloccati nel Paese, la maggior parte in condizioni di detenzione, sequestro e schiavitù. I 30 centri di detenzione formalmente sotto il controllo del governo di Fayez Al Sarraj contengano attualmente un numero che oscilla tra le 6mila e le 15mila persone. Le restanti decine di migliaia di migranti si trovano in un buco nero fatti di luoghi di detenzione e di sequestro controllati da milizie, trafficanti  e bande criminali. L’obiettivo del miglioramento delle condizioni di vita dei migranti nei “centri d’accoglienza” previsto dall’accordo italo-libico di febbraio, avallato da Bruxelles, è stato del tutto disatteso: secondo i dati raccolti da Medu, in questi 4 anni l’85% ha subito in Libia torture e trattamenti inumani e degradanti e nello specifico il 79% è stato detenuto/sequestrato in luoghi sovraffollati ed in pessime condizioni igienico sanitarie, il 60% ha subito costanti deprivazioni di cibo, acqua e cure mediche.

“Sono stato in prigione in Libia per 11 mesi – raccontava ad agosto a Pozzallo L., 20 anni proveniente dal Gambia – durante la detenzione mi sono ammalato per via delle terribili condizioni igieniche della prigione. Ho contratto una malattia della pelle. Tutto il mio corpo era pieno di ferite che sanguinavano e perdevano pus. Loro non mi hanno mai permesso di vedere un dottore così sono peggiorato moltissimo. Mi umiliavano davanti a tutti per questa condizione e nessuno voleva starmi vicino. Le guardie venivano solo per picchiarmi. Così un giorno ho provato a scappare insieme ad un amico. Le guardie ci hanno scoperto quasi subito, ci hanno riportato dentro e ci hanno picchiato violentemente. Alle percosse il mio amico non è sopravvissuto. L’ho visto morire davanti miei occhi”.

Il 55% dei racconti riporta gravi e ripetute percosse e percentuali inferiori, ma comunque rilevanti, stupri e oltraggi sessuali, ustioni provocate con gli strumenti più disparati, falaka (percosse alle piante dei piedi), scariche elettriche e torture da sospensione. Nove migranti su 10 hanno dichiarato di aver visto qualcuno morire, essere ucciso o torturato. Alcuni sopravvissuti sono stati costretti a torturare altri migranti per evitare di essere uccisi.

Le atrocità raccontate dai testimoni, prosegue l’organizzazione, trovano conferma nelle sequele fisiche e psichiche rilevate nei sopravvissuti. L’82% dei pazienti visitati dai medici di Medu presentava ancora segni fisici, spesso gravi, compatibili con le violenze riferite. Spesso più insidiose e invalidanti sono le conseguenze psicopatologiche della prigionia. L. ha 17 anni, arriva dal Gambia: “Sono stato in Libia per 3 anni – ha raccontato il ragazzi al personale di Medu l’8 settembre – gli ultimi 2 anni li ho trascorsi a Zwara. Ho lavorato per la polizia libica, ma non era proprio un lavoro. Loro mi usavano, io non mi potevo rifiutare. Quando ho provato a rifiutarmi mi hanno pestato e hanno minacciato di uccidermi. Il mio compito era quello di recuperare i cadaveri dal mare, i cadaveri dei miei fratelli che morivano durante i naufragi. Li recuperavo e poi dovevo seppellirli. In questi due anni ho contato circa 3mila corpi. Ho finito per farci l’abitudine. Alla fine non mi emozionavo più, non mi sconvolgevo più. Solo per le donne in gravidanza o per i cadaveri dei bambini non sono mai riuscito a farci l’abitudine”.

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