di Dafni Ruscetta 

Gli avvenimenti di questi giorni in Catalogna rappresentano un rischio reale per la già fragile tenuta democratica delle democrazie europee (e non solo). Ciò che sta avvenendo in quella regione rischia di far saltare un assetto di civile e pacifica convivenza che non solo nel paese iberico, ma in tutta l’Unione europea, dura da diversi decenni. E il rischio riguarda non unicamente le assurde scene di violenza a cui abbiamo assistito grazie ai media – e quante altre di cui non sapremo mai – ma anche e soprattutto le evidenti violazioni del diritto che si sono realizzate durante questi avvenimenti e nelle azioni che li hanno preceduti.

Partiamo da un dato di fatto: il Parlamento catalano non ha la competenza di indire un referendum senza autorizzazione dello Stato, secondo l’art.149.1 della Costituzione iberica e secondo l’art. 2 della legge organica n. 2 del 18 gennaio 1980. L’indizione di un referendum popolare, secondo la Carta costituzionale spagnola, è dunque competenza esclusiva dello Stato. Non a caso, infatti, la Corte Suprema lo ha dichiarato illegittimo ancor prima che si tentasse di far votare la popolazione con ogni mezzo. Quindi occorre passare attraverso un processo di revisione costituzionale. A meno che non si voglia dichiarare che la Costituzione di un paese non vale più nulla! Oltretutto, a differenza che in Italia, in Spagna non esistono limiti materiali alla riforma costituzionale.

Ora, dal momento che la Catalogna è tuttora parte di uno Stato di diritto con delle precise regole democratiche, sarebbe tenuta a rispettare le leggi di quello Stato. L’aver voluto imporre un referendum a ogni costo equivale ad aver infranto quelle regole, ad aver tentato di forzare la legge superiore dello Stato, la Costituzione appunto. Qualsiasi tentativo di legittimazione di quel voto – sia esso di natura istituzionale, mediatica o popolare – corrisponderebbe all’affermazione della caducità della Carta, che mi risulta essere il presupposto su cui si è fondata qualsiasi democrazia occidentale negli ultimi secoli, compresa quella italiana.

E non bisogna neppure trascurare – come è stato fatto in Italia – il dato della bassa partecipazione: ha votato meno del 50% dei catalani. Vuol dire che più della metà della popolazione di quella regione ha valutato negativamente, ha ritenuto inutile, o illegittima, quella consultazione.

Certo, la questione doveva essere gestita diversamente dalla pur impreparata classe dirigente spagnola, che non ha saputo incanalare la protesta e le decennali pretese nazionalistiche in un procedimento ‘soft’ che avrebbe forse permesso di dialogare sui termini di una possibile indipendenza a medio termine. Ma, a differenza del passato, l’indipendenza andrebbe perseguita in una cornice di rispetto delle leggi piuttosto che con guerre di secessione. Se si dovesse scrivere la legge fondamentale del futuro Stato catalano, come farebbe poi quella nazione ad assicurare successivamente il rispetto della propria Costituzione, non avendo rispettato quella precedente?

L’indipendenza non tarderà comunque ad arrivare – per la Catalogna e per altre aree europee (tra cui anche alcune regioni italiane) – seppur con imprevedibili rischi di destabilizzazione geopolitica a breve termine, perché i processi di cambiamento e la volontà popolare non si possono ignorare e arrestare a lungo. Ma se non si fissano dei paletti fondati sul rispetto dello Stato di diritto tutta la storia degli ultimi secoli non sarà servita a nulla. L’evoluzione dell’umanità passa verosimilmente attraverso l’acquisizione di consapevolezze che non si possono mettere in discussione ogni cento anni. I nazionalismi, l’indipendenza, l’autodeterminazione, impongono nuovi percorsi dialogici e non certo monologhi ideologici da parte delle nuove classi dirigenti assetate di potere, che dimostrano peraltro una scarsa coscienza storica.

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