di Francesco Desogus

Accomunare il desiderio piena autonomia della Catalogna con quello sardo può non essere corretto se si analizzano i motivi storici. Le motivazioni del popolo catalano sono oggi richiamate da tutti. Riguardo alla Sardegna, Antonio Gramsci nel 1923 si domandava: “Perché in Sicilia i grandi proprietari sono autonomisti e non i contadini, mentre in Sardegna sono autonomisti i contadini e non i grandi proprietari?”.

Storicamente le uniche pagine di autonomia sarda sono limitate al periodo dei Giudicati (entità statuali autonome al potere fra il IX ed il XV secolo). Furono stracciate dalla conquista, nel Trecento, ad opera delle truppe catalane (sic!) di Alfonso IV d’Aragona che introdussero anche il regime feudale. Il latifondismo siciliano persisteva ancora ai tempi di Gramsci, forse temevano una loro “legge delle chiudende” che volle il re di Sardegna nel 1820 per superare il feudalesimo frazionando la proprietà terriera, seppur tra truffe ed abusi.

La Sardegna è sempre stata una terra di conquista fin dal dominio romano. Non era solo il “granaio” dell’Urbe, fu anche un serbatoio di schiavi, deportati in tali quantità che Livio scrisse: “sardi venales” (sardi a basso costo).

Vista come una colonia oltremare, sia durante il secolare dominio spagnolo e poi in quello sabaudo, più che una semplice porzione separata della nazione dominante. Con le ovvie conseguenze. In primo luogo imponendo che i vertici della burocrazia e militare non fossero mai assegnati ai nativi. Non si fidavano dei sardi, gente chiusa, con tradizioni aliene, “selvagge” e una lingua latina arcaica. Ma li sfruttarono a dovere, con imposizioni fiscali insopportabili: ad esempio le “decime”, prelievo basato sul seminato, perché il raccolto, in caso di stagione sfavorevole, sarebbe stato magro anche per il feudatario e il sovrano.

Nel 1794 ci fu l’unica “primavera sarda” che procurò la cacciata dei piemontesi. Durò poco e lasciò di meno, ma oggi sono grati gli studenti a cui è riservata una festività in più per la ricorrenza. Il secolare malessere economico sardo, sopratutto delle zone interne, è sfociato anche nel banditismo, un fenomeno che si è tradotto in alcuni episodi di repressione militare devastando interi villaggi e peggiorando il sentimento verso il potere centrale.

Neppure l’avvento delle miniere, nuova fonte di reddito che non ovviò alla millenaria transumanza pastorale, migliorò il rapporto con lo Stato. Anche quello era un mestiere duro, pagato a cottimo e con pretese anche disumane, che portò alle prime storiche lotte operaie di rivendicazione, finite spesso inesorabilmente nel sangue.

Sono anche altre le cause del desiderio autonomista ancora oggi diffuso tra molti sardi, voglia che trova origine e fondamenta quale riscatto verso un governo centrale oppressore o colonizzatore. L’isola oggi subisce la maggiore estensione di servitù militari in Italia, in più si ritrova decine di migliaia di ettari da bonificare e migliaia di persone a spasso, frutto del modello fallimentare di industria chimica sostenuto dalla Stato.

Il sardismo è un sentimento per molti versi individuale più che un movimento di massa a base popolare. In un suo saggio, lo storico sardo Gian Giacomo Ortu, ricorda che nella società pastorale sarda “la democrazia e l’uguaglianza, se ci sono, sono soltanto quelli hobbesiani: ciascuno fa per sé e perciò ciascuno è libero di fare per sé  tutto ciò che può”. Questo motiva l’esistenza di vari movimenti e piccoli partiti indipendentisti sardi.

Ecco tutta la fragilità dell’indipendenza sarda, l’incapacità di essere davvero coesi. Non tanto per l’assenza del fattore indispensabile l’autonomia economica che la Sardegna non ha mai posseduto in tutta la sua lunga storia. In questo non si può paragonare alla Catalogna che procura una quota consistente del Pil dell’intero Stato spagnolo.

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