La scorsa settimana ho partecipato a un Surf Camp, insieme a mia figlia di 13 anni, sulla costa orientale dell’Australia. Cinque giorni di full-immersion nel magico mondo delle onde in compagnia di ottanta giovani europei (età media dai 20 ai 25 anni) appena sbarcati down under per passare almeno un anno dall’altra parte del mondo. Tedeschi, inglesi, scozzesi, irlandesi, svedesi, olandesi, francesi e belgi: una rappresentanza significativa della gioventù europea, che ha deciso di rispondere alle odierne inquietudini attraversando l’oceano e lanciandosi alla scoperta di una nuova frontiera.

Nelle pause surfistiche, mentre si era tutti insieme a tavola o in spiaggia ad ascoltare musica, ho approfittato per capire gli umori e il modo di pensare di questi giovani e, pur conscio del fatto che il campione numericamente non sia particolarmente significativo, mi pare di aver captato dei trends comuni abbastanza consolidati.

1. Ragazzi colti e con uno sguardo vivo verso il mondo non sono minimamente interessati a “baruffe chiozzotte” incentrate su regionalismi, indipendenze e autonomia provincialistiche. Il loro orizzonte è il globo e – a mio modesto avviso – considerano ogni tentativo di segmentazione geografica una sterile battaglia di retroguardia portata avanti da una generazione vecchia ed ancorata al passato.

2. Non mi pare nemmeno che vi sia tutta questa urgenza di cambio, rottura o rivoluzione. Probabilmente, le profonde scosse avvenute a livello mondiale negli ultimi anni (primavera araba, Trump, Brexit, per citarne solo alcune) hanno destabilizzato anche loro e creato un desiderio di stabilità/solidità/continuità. Interessante ad esempio è stato commentare con il gruppo tedesco i risultati delle recenti elezioni. Seppure molti di questi ragazzi fossero di sinistra, tutti concordavano sul fatto che la cancelliera abbia governato ottimamente in questi anni e – per il bene del Paese – in fondo non fosse un male garantire un altro mandato ad Angela Merkel, anche contro gli interessi del partito che li rappresenta.

3. Tutti gli inglesi erano in principio contrari alla Brexit, capendo quanto questa misura possa in teoria limitare alcune opportunità lavorative per loro in ambito europeo, tra le altre cose. Ciononostante, nel momento in cui il discorso verteva su questioni più concrete, come ad esempio la “protezione” dei prodotti agricoli inglesi che non saranno più sottoposti alla regolamentazione europea (anche se in realtà credo che questa sia una falsa illusione, visto che per esportare in Europa dovranno sottoporsi al medesimo meccanismo di certificazione), ho notato una dicotomia nel loro modo di pensare. Questi ragazzi sono europei ed europeisti per quanto concerne la loro vita futura, personale e professionale, ma diventano più nazionalisti nel momento in cui credono che determinate misure possano portare maggior benessere alle loro famiglie di origine e comunità di provenienza.

4. Il dato più interessante e sorprendente – almeno per me – è che il motivo principale della dipartita di questi ragazzi non è legato all’economia o alle prospettive di lavoro. Questa non pare essere la preoccupazione dominante, anche perché stiamo parlando di alcuni Paesi dove i livelli occupazionali sono ancora molto elevati (Germania e Paesi scandinavi, ad esempio). La ragione principale – come mi ha detto un ragazzo francese – è la mancanza d’aria e di orizzonti che si respira in Europa. Tutti mi hanno comunicato la sensazione di voler fuggire da un ambiente stantio, ripiegato su se stesso e sulle glorie passate, con poca tensione ed entusiasmo verso il futuro.

Una società dove essere giovani, più che un’opportunità, diventa una minaccia, se non addirittura una colpa. Questo vengono a cercare in Australia i nuovi migranti: una iniezione di entusiasmo e fiducia, una boccata d’ossigeno per ripartire. Non un lavoro, non soldi. Piuttosto un modo di ridare dignità, spinta e speranza per il loro futuro, che comunque pensano di trascorrere (nella stragrande maggioranza dei casi) nel loro paese di origine.

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