di Roberto Iannuzzi*

A meno di un anno dalla sua elezione, le priorità strategiche che il presidente statunitense Donald Trump aveva fissato in campagna elettorale appaiono stravolte. L’idea di anteporre i problemi interni a quelli internazionali, secondo lo slogan “America first”, sta cedendo il passo a una retorica sempre più aggressiva nei confronti della Corea del Nord e dell’Iran, e a un rinnovato impegno militare in Afghanistan.

E mentre la contrapposizione politica fra repubblicani e democratici, e fra la Casa Bianca e il Congresso, ha paralizzato i progetti di riforma sul fronte interno, la ventilata riconciliazione con la Russia è naufragata nel durissimo scontro politico del cosiddetto “Russiagate”. Quest’ultimo ha contribuito enormemente a plasmare la nascente amministrazione fin dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, sebbene la presunta collusione fra il neopresidente e Mosca nelle Presidenziali del 2016 sia tuttora oggetto di indagine, e rimanga al momento supportata da indizi più che da prove concrete. La campagna mediatica, giudiziaria e dei servizi di intelligence contro Trump ha determinato la graduale uscita di scena dei personaggi ideologicamente a lui più vicini, da Mike Flynn, suo primo consigliere per la sicurezza nazionale, a Steve Bannon, esponente della destra nazionalista.

Al loro posto sono subentrati esponenti dei vertici militari, dal generale H.R. McMaster che ha rimpiazzato Flynn, al generale in pensione John Kelly, divenuto capo del personale della Casa Bianca in sostituzione del dimissionario Reince Priebus. Un altro posto chiave dell’amministrazione, quello di segretario alla Difesa, era stato assegnato fin dall’inizio a un altro ex generale, James Mattis.

Nel frattempo, manovre interessanti si sono registrate negli ambienti neoconservatori, i cui esponenti avevano raggiunto i vertici del potere sotto George W. Bush, per poi mantenere posizioni più defilate ma non prive di importanza durante il doppio mandato di Obama.

Avendo apertamente deriso Trump in campagna elettorale, molte figure di punta dei “neocon” si sono precluse l’accesso alla nuova amministrazione. Ciò non ha impedito alle seconde file di ottenere posti di rilievo, in particolare al dipartimento di Stato guidato da Rex Tillerson, ex amministratore delegato della Exxon-Mobil la cui candidatura era stata sponsorizzata da “guru” neoconservatori come Dick Cheney e Condoleeza Rice.

Esponenti neocon di tendenze antirusse come Kurt Volker e Wess Mitchell sono così divenuti rispettivamente rappresentante speciale per l’Ucraina e vicesegretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici.

Nadia Schadlow, un’altra figura di affiliazione neocon, si è invece vista assegnare dal generale McMaster il compito di redigere la “strategia di sicurezza nazionale” della nuova amministrazione, importante documento che dovrebbe vedere la luce al più tardi entro la fine dell’anno.

Con l’ingresso al governo dei generali e di alcuni neoconservatori, la componente “globalista” sembra aver preso il sopravvento sulla componente più “nazionalista” e isolazionista (oltre che più accomodante nei confronti della Russia) che era rappresentata da figure uscite di scena come Bannon e Flynn. Il generale John Kelly, in particolare, sembra aver imposto una nuova disciplina alla Casa Bianca, e controlla gran parte del flusso di informazioni che giungono al presidente.

Un primo effetto si è visto riguardo all’Afghanistan, allorché Mattis e McMaster sono riusciti a convincere Trump a non ritirare le truppe americane dal paese, come egli aveva promesso di fare in campagna elettorale, ma anzi ad inviarvi altri 4.000 soldati facendo inorridire la base trumpiana.

Negli Stati Uniti alcuni hanno visto con sollievo l’ingresso dei generali in posti chiave dell’amministrazione, considerandoli come “gli adulti” in grado di far ragionare un presidente imprevedibile e impreparato in politica estera. Vi è tuttavia chi ha fatto osservare che i generali tendono a pensare in termini “militari” piuttosto che diplomatici, e a distorcere le priorità nazionali anteponendo le “necessità strategiche” del paese a quelle interne.

Essi inoltre non sono in grado di contenere la retorica distruttiva di cui Trump ha dato ulteriore prova recentemente all’Assemblea generale dell’Onu, allorché si è scagliato contro Corea del Nord, Iran, Venezuela e Cuba.

Il linguaggio della forza e delle minacce che il presidente americano sembra prediligere, e la maggiore dimestichezza che i suoi generali hanno con la logica militare rispetto a quella diplomatica, rischiano di aggravare ulteriormente la crisi strategica in cui gli Stati Uniti si trovano ormai da anni, nella misura in cui questioni complesse come quella dell’Iran e della Corea del Nord non possono essere risolte attraverso approcci “muscolari”.

Trump appare estremamente debole sul fronte interno a causa dell’aspro scontro politico in cui si dibatte il paese. Con la sua aggressività in politica estera, egli rischia di infilarsi in un vicolo cieco per uscire dal quale sarà costretto o a perdere la faccia, incrinando ulteriormente la credibilità dell’America a livello internazionale, o a flirtare con un avventurismo potenzialmente disastroso alla luce delle attuali tensioni mondiali.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (aprile 2017)

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