Mangia bene, non morirai mai. Nell’epoca dei social e della comunicazione a distanza, il corpo ha trovato nuovi modi per irrompere sulla scena e reclamare i suoi diritti. Il vuoto lasciato da religioni e passioni politiche è stato occupato da nuove ideologie, spesso legate proprio alla corporeità, centro occultato e spesso addirittura rimosso della nostra identità. Il corpo oggi torna al centro dell’attenzione ma lo fa in modo incontrollato, aggressivo: la natura destrutturata della società rende schizofreniche e compulsive queste nuove fedi contemporanee, che si nutrono del flusso di informazioni disperse online. Si cerca di appagare attraverso i bisogni primari – e tra questi l’alimentazione è in pole position – i propri vuoti: il benessere diventa una religione, l’unica oggi possibile. Il cibo si fa moda, posa, status symbol, un modo per aumentare la propria autostima. Diventa terreno di scontro, campo minato: pranzi e cene non sono più un modo per stare insieme, l’alimentazione diventa rivendicazione, mania, difesa ideologica. Se la scelta vegetariana e quella vegana hanno le loro sacrosante ragioni (io stesso non mangio carne), ciò che però appare problematica è l’ossessione salutista che progressivamente arriva a mettere in scena nel piatto una specie di piccola grande epopea tra fazioni rivali, in cui lo scontro tra Bene (cibi puri) e Male (cibi nocivi) produce derive patologiche.

La psicologia già da tempo ci mette in guardia: il meglio sa essere nemico del bene. L’eccessivo desiderio di mangiare sano fa ammalare, soprattutto emotivamente. I dati raccolti dal Ministero della Salute chiariscono l’entità del fenomeno: 3 milioni di italiani soffrono di disturbi alimentari e di questi almeno 500.000 di quella che il dietologo Steve Bratman ha definito “ortoressia” (dal greco orthos, “giusto”, “corretto” e orexis, “fame”, “appetito”), ovvero di fanatismo per i cibi salutari. Un’indagine recente dell’associazione Nutrimente ha visto che su 1200 italiani presi in esame uno su tre riferisce di avere almeno un amico fissato con l’alimentazione. E il delirio salutista scatta soprattutto nelle metropoli: Milano è in testa alla classifica delle città inclini al fanatismo alimentare. Seguono Roma e Torino.

Il tentativo forsennato di purificare il corpo intossica la vita: il bisogno di benessere alimentare sempre più spesso scappa di mano, sfociando in vere e proprie forme ossessive di controllo e selezione della composizione chimico-biologica dei cibi che mangiamo. Il menù si fa sempre più ristretto: si rivede drasticamente il proprio bisogno di appagamento sensoriale e spesso anche il piacere di stare insieme, le tradizioni familiari, le esigenze di chi ci sta intorno. Siamo bersagliati dai pareri dei vari esperti, delle scuole, delle ultime ricerche pubblicate su siti e riviste: ognuno dice la sua, ovvero demonizza uno o più gruppi di alimenti. Le suggestioni negative si moltiplicano, i divieti prolificano: niente carne, niente latticini, niente glutine, no allo zucchero e no al dolcificante, no al sale, no al glutammato, niente farine bianche, no ai conservanti, ai coloranti, all’olio di palma, alle troppe calorie… Togli, elimina, stanne alla larga: i nemici sono ovunque. I dictat dei vari orientamenti disponibili sul mercato erodono progressivamente il numero dei cibi a disposizione. Intolleranze e antipatie vengono usate come scudo per tenere il male lontano. Il cerchio si stringe: non resta quasi più niente.

Nel 1997 Bratman mise a punto un questionario di dieci domande (facilmente reperibile online) utile per capire se si soffre di quella che ormai viene considerata una psicopatologia. Pensare al cibo più di 3 ore al giorno, sviluppare sensi di colpa quando si sgarra, manifestare un costante bisogno di controllo: l’ortoressia nervosa ci chiude in una bolla di compulsioni asfittiche che arrivano ad essere maniacali, cieche, irrazionali. Compulsioni che in più si autolegittimano, ritenendosi “a fin di bene”. Spesso alla base ci sono ragioni sommerse, fragilità mal gestite: si aderisce nevroticamente a regole basate su letture rapsodiche e scientificamente dubbie, per appagare un disturbo d’ansia. Le conoscenze sono perlopiù superficiali: si vive di superstizioni, slogan, luoghi comuni. Un’inclinazione alimentata oggi anche dai social: il “sentito dire”, rimbalzando di bacheca in bacheca, si ingigantisce, diventa potentissimo perché ci si contagia a vicenda. Le convinzioni personali si aggregano, nascono gruppi e pagine Facebook e il cibo sano diventa criterio di adeguatezza morale, un ideale di purezza fondamentalistico.

Vogliamo disperatamente appartenere a qualcosa: questa è l’epoca delle identità acquisite per essere esibite. Onnivori, carnivori, vegetariani, vegani, crudisti, fruttariani: scegli il tuo brand, scegli da che parte stare e combatti. Il cibo diventa terreno minato, campo di battaglia. La smania di mangiar sano perde di vista non solo il tradizionale valore conviviale del cibo, ma anche le qualità emotive della rilassatezza, della moderazione. L’ortoressia cerca di tutelare il corpo ma intacca il sistema nervoso: la tensione sale, tutto va controllato, analizzato. Si sprofonda nel paradosso: i comportamenti per star bene ingabbiano la persona, la bloccano nell’illusione che tutta la salute dipenda dal cibo. Ci si crea da soli un regime senza piacere, o in cui le uniche forme di piacere ammesse sono il sollievo nell’evitare i cibi proibiti, il senso di colpa per i cedimenti o gli errori e l’odio per chi si regola diversamenre. Mangiare diventa un atto rigorosissimo e le emozioni vengono congelate perché d’intralcio, viziose, inaffidabili.

Dietro questi eccessi c’è spesso un disturbo emotivo sotterraneo: una fobia del dolore e delle malattie, essenzialmente. Ma possono esserci, secondo alcuni autori, tendenze anoressiche che trovano un modo più accettato socialmente di esprimersi. Chi controlla compulsivamente il cibo che mangia spesso, dicono gli psicologi, è vittima di un ingombrante senso di precarietà: sente di doversi attrezzare contro le sciagure del corpo, contro le contaminazioni, l’invecchiamento, il decadimento. Quest’estremismo tutto occidentale e consumistico per il cibo “santo”, puro, si dedica al benessere producendo però tensione mentale, dispendio economico, contrasti e spesso anche interruzione dei rapporti sociali: insomma persegue un’idea piuttosto discutibile di benessere.

Le nuove ideologie alimentari cercano di riempire i vuoti dell’autostima e della personalità: danno la sensazione di essere speciali quando si è più che altro pedine di fenomeni collettivi che ci sovrastano. L’ortoressia, proprio come anoressia e bulimia, è un enorme No gridato alla vita. Nulla al mondo è privo di contaminazioni, la ricerca del cibo puro diventa spasmo infinito. Non è mai abbastanza, si può sempre mangiare meglio e anzi è obbligatorio farlo. Il culto patologico per il cibo sempre più benefico e “naturale” persegue il sogno allucinato della purezza che salva dal deterioramento, dalla vecchiaia e dalla morte. Non si accetta che il corpo si possa ammalare: il cibo perfetto è una specie di lifting immateriale, espressione di fragilità e paura, più che di illuminazione. Checché ne dicano le maestre di yoga.

 

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