Il governo tunisino annuncia di star preparando un programma per la de-radicalizzazione dei quasi duemila jihadisti tunisini di ritorno che hanno combattuto nelle fila dello Stato Islamico in Siria, Iraq e Libia. A darne notizia sono diversi quotidiani arabi, fra cui il saudita as Sharq al Awsat il quale riporta che, secondo il Comitato governativo tunisino per il combattimento del terrorismo e dell’estremismo, per il 2018 l’esecutivo ha stanziato ingenti risorse per lo sviluppo del piano di riabilitazione degli estremisti. Un tema delicato, quello dei foreign fighters di ritorno in patria, che nel passato ha acceso diverse polemiche nel paese nord africano, con manifestazioni e qualche episodio violento. “La maggior parte della popolazione è contraria al rimpatrio dei jihadisti e nessuno ha davvero il coraggio politico di creare programmi per la de-radicalizzazione perché perderebbe le prossime elezioni – spiega al ilfattoquotidiano.it Stefano Torelli, analista dell’ISPI e dell’Ecfr, coautore con Massimo Campanini del libro Lo scisma della mezzaluna. Sunniti e sciiti, la lotta per il potere (edizioni Mondadori).

Ad accendere le ultime polemiche erano state le dichiarazioni del presidente della repubblica. “Sul finire dello scorso anno, il presidente Essebsi aveva detto che tutti i tunisini hanno il diritto di tornare, facendo intendere che avrebbe ripreso tutti i jihadisti di ritorno. Ma queste parole avevano spinto la popolazione in piazza contro questa ipotesi – ricorda l’analista – E alcuni partiti avevano presentato anche una proposta di legge per privare della cittadinanza chi si è macchiato di terrorismo, andando così in contrasto con la costituzione tunisina secondo cui nessun cittadino può essere privato della cittadinanza, né può essergli negato il ritorno in patria”.

Anche se in passato le autorità di Tunisi avevano seguito questa linea, andando proprio contro la costituzione. Il caso di Anis Amri è significativo in questo senso: prima dell’attentato al mercatino di Natale di Berlino nel dicembre 2016, Italia e Germania aveva chiesto il rimpatrio di Amri ma la Tunisia non lo aveva riconosciuto come cittadino. Il numero elevato dei combattenti tunisini aveva spinto l’Unione Europea a fare pressing sulle autorità del paese perché si riprendessero i foreign fighters di ritorno. Una cifra che si aggira, secondo il dato del ministero degli interni di Tunisi, a 2929 unità. Mentre per le Nazioni Unite sarebbero il doppio, fra i 5000 e i 6000, attestando questa nazionalità come il gruppo più numeroso fra i miliziani dell’Isis. “Tutti questi tunisini che hanno la fascinazione per lo Stato Islamico sono costretti ad andare fuori dal loro paese a combattere la jihad perché il loro paese ha gli anticorpi per sostenere una ‘insurrezione‘ islamica – sottolinea l’analista dell’Ispi – Gli egiziani non figurano numerosi nelle liste dei combattenti stranieri dello Stato Islamico perché hanno un fronte di jihad aperto nel loro paese, in Egitto, e quindi non vanno fuori”.

A spingere verso la radicalizzazione molti tunisini è un insieme di concause. “La stragrande maggioranza delle leve vengono dalle zone al confine con l’Algeria: le più povere. Poi c’è il senso di marginalizzazione sociale e politica che ti porta a combattere. Infine c’è la decisione di al Nahda – partito tunisino islamico – di abbandonare la sfera religiosa, come hanno annunciato durante il congresso dell’anno scorso, scomparendo dalla vita sociale come punto di riferimento”. Questo, analizza Torelli, “significa che quello spazio lasciato vuoto da al Nahda viene riempito da Imam fai da te: non si trova più il partito, stile fratellanza musulmana, ma il predicatore radicale”. Oltre alla Tunisia, in Europa diversi stati, fra i quali Francia e Belgio, stanno sperimentando programmi per il recupero dei jihadisti di ritorno. Mentre “in Italia si agisce molto bene per la prevenzione: non siamo solo fortunati, le varie forze dell’ordine agiscano efficacemente in questo senso”. E riguardo alla de-radicalizzazione, conclude l’analista, “è prematuro pensare a progetti di questo tipo là dove i dati ci dicono che è un fenomeno molto marginale, sarebbe necessario qualora avessimo un fenomeno più ampio: da quello che è emerso fino ad ora non pare che i dati giustifichino la necessità di intraprendere in Italia questi progetti”.

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