Che il calcio fosse uno sport beffardo mi era noto, ma non sapevo quanto lo stadio fosse in grado di amplificare il sentimento di scherno dopo un gol degli avversari al 93’ e una partita giocata bene ‘dai padroni di casa’ (come si deve dire nel lessico calcistico).

Così, nel giorno del mio esordio allo stadio del Benevento, dopo il pomeriggio più piovoso dall’autunno del 1815, sono tornata a casa piena di mestizia e completamente fradicia, con l’acqua nelle scarpe, i brividi e i capelli vaporosi di Robert Plant.

E, soprattutto, con una canzone di Max Pezzali che, dal triplo fischio dell’arbitro, non riesce ancora uscirmi dalla testa: ‘La dura legge del gol’. Ebbene sì (confesso!): ero davvero avvilita per un ultimo posto in classifica che fa apparire il Benevento più schiappa di quanto, in realtà, non sia e per la dittatura delle reti che, alla fine, è l’unica cosa che conta. Chi poteva dunque comprendere il mio sentimento e farsi portavoce di quel particolare stato d’animo?

Soltanto gli 883 e allora, mentre strizzavo i miei abiti, ho cercato il pezzo su Youtube e ho preso ad ascoltarlo ripetutamente, come accade con certi brani ossessivi nei momenti di buio dell’esistenza. Mi guardo da fuori e mi vedo in un momento davvero basso della mia storia personale: ancora coi capelli bagnati, al terzo ascolto consecutivo, urlo a squarciagola il ritornello. Sì, ero particolarmente affranta dopo la terza sconfitta consecutiva del Benevento, a tal punto da poter trarre insegnamento dalle parole di Pezzali – che in questo pezzo è più in paranoia di me e spiega il tradimento degli amici con un’ardita metafora calcistica.

“È la dura legge del gol – canta il Nostro – fai un gran bel gioco però (…) alla prima opportunità loro salgono e la buttan dentro a noi, la buttan dentro a noi”.

Sarà stata la pioggia incessante che scuote e stravolge la terra a spingermi verso certe dotte citazioni e verso momenti di prolungata malinconia; saranno stati gli ettolitri d’acqua caduti sulla mia testa mentre, con lo zelo del neofita, durante il primo tempo della partita sono rimasta inchiodata al sediolino dei distinti fino a quando una parte corposa della tifoseria, impacchettata nei k-way, si è mossa di fretta per sottrarsi all’acquazzone. Che fate? Vi alzate?

Ma come le anatre del laghetto di Central Park del Giovane Holden, dove vanno i ‘distinti superiori’ del Vigorito quando diluvia?

Se la curva, per propria stessa ammissione, ha dichiarato con un murales di essere ‘gente che non molla’ dimostrandosi, di fatto, idrorepellente e indifferente alle intemperie, i tifosi del settore distinti, un po’ meno coriacei, che fine fanno durante la tempesta?

Finalmente ho la risposta: migrano, si rifugiano sotto il tetto dei ‘distinti inferiori’, si accalcano, in piedi, alle loro spalle superando lo snobismo con cui hanno prenotato il posto al piano superiore per avere una visione migliore del campo da gioco e, intimamente, meditano sulla dialettica audacia/prudenza.

«E adesso che facciamo?» chiedo a un ragazzino alla mia sinistra con un impermeabile fino ai piedi. «Aspettiamo che spiova e poi torniamo sopra». «Le nuvole andranno via!» ribatte dal fondo un altro ultrà imballato in metri di cellofan giallorosso anti-pioggia. E poi aggiunge: «Noi non ci arrendiamo: Stregone alé!».

È vero: le nuvole andranno via così come ci ha promesso anche Max Pezzali disegnando, alla fine della nostra hit, uno scenario luminoso.

Ps: Per ogni partita in casa, assegnerò il Premio Stregone a una tifosa o a un tifoso che spicca per le proprie gesta sugli spalti. La prima edizione del premio va al signore baffuto che, a fine gara, brandendo un ombrellino, sì è voltato verso la folla e, rompendo il silenzio dell’uscita, ha tuonato: «Amm pers’ contr u Torin, mica contro u Canecattì!» (Abbiamo perso contro il Torino, mica contro il Canicattì!). E poi, tra sé e sé, ha borbottato: «Cu tutt u rispett p’u Canicattì». Con tutto il rispetto per il Canicattì, il tifoso baffuto ha vinto.

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