Gli ottanta chilometri di strada che vanno dalla città di Erbil a Mosul sono sono una piana costellata di campi profughi in cui hanno trovato rifugio parte degli 838.000 sfollati della battaglia che lo scorso luglio ha portato alla caduta della capitale irachena dello Stato Islamico. Agglomerati con migliaia di tende bianche delimitate da una recinzione che si stagliano nel panorama desertico in cui si alternano i villaggi distrutti e ancora disabitati dopo che che 3 anni fa, per un breve periodo, erano stati presi dagli uomini di Abu Bakr Al Baghdadi.

A 40 km a est di Mosul sorge il campo profughi di Hassan Sham che ospita circa 10.200 persone fuggite dalla città liberata ufficialmente il 9 luglio. “Dei giorni in cui eravamo assediati dai bombardamenti a Mosul Est mi è rimasta l’immagine di me rannicchiato con la testa tra le gambe. Eravamo intrappolati tra le macerie, le case erano state ridotte in polvere. Non riuscivamo a uscire, molte persone sono rimaste uccise, la situazione era terribile. Per la strada c’erano corpi ovunque, mancava tutto, mangiavamo del cartone ammorbidito con l’acqua”, racconta Ahmed, nome di fantasia, ragazzo minuto di 24 anni che da 9 mesi vive in una delle tende di Hassan Sham. “Non abbiamo più niente. Io ormai sono adulto e non ho un lavoro. Quelli più giovani di me non sono andati a scuola per anni, non c’è alcun futuro per noi”.

Come per la maggior parte delle persone che vivono nelle tende bianche tormentate dal sole cocente, il futuro passa anche dalla cure delle ferite invisibili della guerra, i traumi psicologici che riguardano la maggioranza degli sfollati interni di Mosul. Gli shock causati dalla guerra e dalla perdita della propria abitazione possono degenerare in patologie come la sindrome da stress post-traumatico (PSTD). Nel campo di Hassan Sham gli operatori dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, lavorano a un programma di supporto psico-sociale per gli sfollati interni. Ahmed lo frequenta da alcuni mesi assieme ai suoi coetanei che si riuniscono diverse volte alla settimana nella grande tenda blu allestita nel centro.

Accanto c’è un’altra struttura gemella, è l’area dedicata alle donne. Tra le macchine da cucire e le stoffe colorate, incontriamo Rasha, altro nome di fantasia. Ha solo 14 anni ed è l’unica che accetta di parlare: “Ho vissuto quasi 3 anni sotto l’Isis. Siamo scappati lo scorso marzo, è stato terribile. Decine di capi famiglia sono stati decapitati perché, come noi, tentavano di fuggire. Mio padre è stato picchiato, ma si è salvato”, racconta. “Nell’ultimo periodo il cibo scarseggiava, non c’erano medicinali. Negavano le cure a chi stava male o restava ferito. Gli uomini dell’Isis ci dicevano di lasciarli morire. Inoltre, le punizioni che venivano inferte quando si violava il loro codice di condotta erano terribili. Una volta una donna che per loro non era coperta a sufficienza è stata picchiata in maniera violenta per la strada”.

Le Nazioni Unite stimano che l’80% degli sfollati interni della battaglia di Mosul abbia conseguito dei traumi, mentre quelli che hanno disordini mentali (con sintomi che vanno oltre lo shock) sono circa il 15-20%; il 3-4% di loro, infine, ha disturbi acuti. “I sintomi di cui parliamo sono depressione, disturbi psicosomatici come la perdita del sonno o della vista – Abdulhalim Hasan, psichiatra siriano dell’Oim – le donne perdono i capelli, chi ha subito uno shock provocato dai bombardamenti tende ad avere comportamenti aggressivi, mentre i parenti delle persone che hanno collaborato con l’IS mostrano spesso impulsi vendicativi“.

Abdulhalim è di Damasco, era il capo dipartimento nel centro di salute mentale di Douma, ma nel 2013 è scappato con la sua famiglia prima nel nord della Siria, poi in Turchia e infine in Giordania. Anche sua figlia è affetta da disordini mentali dopo essere sopravvissuta a un colpo di mortaio che ha colpito la sua scuola uccidendo 5 compagne di classe. “Chi ha subito torture o ha vissuto per anni sotto lo Stato Islamico è in un periodo di transizione e deve riadattarsi alle nuove condizioni. La situazione è molto delicata anche per quanto riguarda le donne e i minori. I bambini, per esempio, non sanno cosa sta succedendo; ci chiedono perché non hanno più una casa o perché i loro parenti sono morti. A volte pensano di essere stati puniti da dio e credono che sia colpa loro, che la guerra sia arrivata perché hanno disubbidito alla loro madre”.

A pochi chilometri di distanza viaggiando da Hassan Sham verso Mosul c’è il campo di Chamakor. Allestito nel marzo del 2017, ospita altre 10.000 persone fuggite dalla battaglia. Anche qui l’Oim ha predisposto uno dei 7 centri di supporto psicosociale della Mosul Response, il programma di emergenza per gli sfollati dalla città irachena.

Lina, nome di fantasia, ha 36 anni vive qui dall’apertura del campo con i suoi due figli di 2 e 3 anni. “Ricordo quando l’Isis è arrivato a Mosul: ero all’ospedale a visitare dei parenti e avevamo sentito che i miliziani stavano avanzando verso la città. Il giorno dopo erano già arrivati nelle nostre case”, racconta mentre i suoi due bambini giocano in un angolo. “Quel giorno non avevo provato paura perché non era la prima volta che vedevo cose atroci, in Iraq ne abbiamo viste tante negli ultimi decenni. Ma la vita sotto il loro controllo è stata dura. Ci proibivano di ascoltare musica, di guardare la tv. Ero costretta a coprirmi per uscire altrimenti venivamo punite, l’unica soluzione era restare a casa”.

Le attività di sostegno dell’Oim puntano a ridurre al minimo l’utilizzo di farmaci e affiancano consulenze psicologiche e attività di comunità, dal cucito allo sport perché, dicono gli psicologi e gli psichiatri, il futuro di Mosul passa dalla resilienza dei suoi cittadini e dalla ricostruzione di una nuova identità collettiva. Anche se il limbo della vita nei campi potrebbe durare ancora a lungo. Come affermato dal leader radicale sciita Moqatada al-Sadr a Jonathan Steele, ex corrispondente del Guardian, “la sconfitta dell’IS potrebbe dare il via a una genocidio di alcuni gruppi etnici o settari”.

Come riportato dalla stampa internazionale, il primo ministro sciita Haider al-Abadi che ha ripreso il controllo di Mosul ha mostrato dei segni distensivi verso gli iracheni sunniti di etnia araba (che abitano in maggioranza l’ex capitale del califfato). Ma al momento le incognite sono tante a partire dal destino di alcune milizie che combattono sulla piana di Ninive come le Forze di Mobilitazione Popolare che vedono tra le loro fila anche gruppi di combattenti sciiti legati all’Iran; la loro presenza ha aumentato l’alienazione della popolazione sunnita già colpita dalle politiche esclusiviste del precedente premier sciita al-Maliki. Dall’altra parte gli abitanti di Mosul che hanno vissuto sotto lo Stato Islamico vengono visti con sospetto e reputati dei potenziali simpatizzanti o affiliati del califfato.

“Ci vorrà molto tempo, ogni famiglia ha una storia travagliata e ha perso qualcuno”, conclude Hasan. “Non è semplice dimenticare, una generazione intera parlerà degli anni passati sotto l’Isis, resterà nella memoria collettiva così come lo sono stati la dittatura di Saddam Hussein e gli eventi negli anni successivi alla sua caduta”.

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