di Simone Tonin*

Alcuni fatti e un po’ di storia

È da alcuni decenni ormai che molti settori dell’economia sono caratterizzati da intense dinamiche aggregative: le piccole imprese si uniscono per crearne nuove, di dimensioni sempre maggiori, mentre le grandi imprese si espandono ulteriormente acquistandone altre. I frutti di queste fusioni e acquisizioni hanno raggiunto dimensioni tali che anche il settimanale britannico The Economist, di orientamento esplicitamente liberale, ha dedicato alle imprese giganti un inserto speciale manifestando alcune perplessità sul loro ruolo all’interno del sistema economico. Uno dei dati più impressionanti riportati dal settimanale mostra che le cento più grandi compagnie americane producevano “solo” il 3% del Pil nominale nel 1994 mentre nel 2013 sono arrivate a produrne il 46%. In altri termini, nel 2013 quasi la metà del valore della produzione americana era prodotto dalle cento imprese americane con ricavi più elevati. Questo significa che settori sempre più ampi dell’economia americana sono controllati da un numero ristretto di grandi imprese. Nemmeno l’economia digitale, che sta lentamente sostituendo la classica produzione industriale, è al riparo da questi sviluppi. Questo settore relativamente nuovo dell’economia è già dominato da colossi come Amazon, Facebook, e Google, impegnati regolarmente nella conquista di società più piccole che detengono innovazioni di successo. Un esempio fra tutti è l’acquisizione di Instagram e Whatsapp da parte di Facebook per un miliardo e 19 miliardi di dollari rispettivamente.

Casi concreti di tali fenomeni non mancano nemmeno in Italia. Nel settore dell’editoria, per esempio, abbiamo assistito l’anno scorso a due grandi acquisizioni: dalla cessione di Rcs Libri a Mondadori è nata “Mondazzoli”, che controllerà quasi il 40% della quota del mercato librario; i quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX sono invece confluiti nel Gruppo editoriale L’Espresso, che arriverà così a gestire circa il 20% del mercato della stampa cartacea. Nel settore bancario, inoltre, possiamo già osservare i risultati delle fusioni avvenute negli ultimi vent’anni. Unicredit e Intesa San Paolo, le due principali banche italiane attive a livello europeo e mondiale, sono infatti nate dall’unione di banche locali nel 1998 e nel 2007 rispettivamente. Più recentemente, la riforma del credito cooperativo voluta dal governo Renzi ha rilanciato le unioni in questo settore, obbligando gli istituti di credito cooperativo a confluire in grandi gruppi bancari.

Il ruolo delle grandi imprese come protagoniste della scena economica nei paesi occidentali non è una novità se osserviamo con attenzione gli sviluppi economici nello scorso secolo. L’inizio del Novecento, un periodo storico per certi aspetti simile a quello attuale, aveva già visto il loro affermarsi in America. Ad esempio, la Standard Oil all’apice della sua espansione, prima di essere separata in trentaquattro piccole società dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, gestiva il 91% della produzione di petrolio statunitense. La storica economica Naomi Lamoreaux, in una delle sue ricerche, mostra che l’ondata di fusioni d’imprese americane a cavallo tra il XIX secolo e il XX secolo avevano dato vita a oligopolisti come la General Electric e l’American Tobacco Company che controllavano oltre il 90% dei rispettivi mercati. È molto interessante sottolineare che le fusioni e le acquisizioni di quegli anni furono precedute da un periodo d’intensa competizione perché lo sviluppo dei trasporti ferroviari e del commercio internazionale aveva messo in comunicazione mercati che prima erano separati geograficamente.

Problemi economici

Purtroppo si tende spesso a dimenticare che le grandi imprese possono acquisire delle posizioni dominanti che permettono loro di aumentare i prezzi, ad esempio restringendo l’offerta di prodotti, al fine di massimizzare i loro profitti. Su questo punto, però, le opinioni degli economisti non sono unanimi e le conferme empiriche sono ben lontane dall’essere conclusive. Per esempio, Harold Demsetz, esponente della Scuola di Chicago, ritiene che i profitti più elevati ottenuti nelle situazioni di oligopolio, caratterizzate dalla presenza di poche e grandi imprese, non siano conseguenza dell’esercizio del potere di mercato, ma che derivino piuttosto dalla maggiore efficienza produttiva. Diversamente, lo storico economico Anthony O’Brien, in un articolo del 1988 in cui studia le fusioni e acquisizioni avvenute alla fine del XIX secolo, argomenta abilmente che questi processi aggregativi trovano spesso la loro raison d’être nel desiderio di ridurre la competizione di prezzo piuttosto che in quello di sfruttare le economie di scala generate dalle maggiori dimensioni.

In ogni caso, è cruciale sottolineare che se le grandi imprese influenzano i prezzi, allora i meccanismi del mercato non sono più necessariamente un valido strumento per distribuire le risorse e i prodotti fra gli agenti che operano nell’economia. L’efficienza degli scambi commerciali, spesso descritta dalla metafora della mano invisibile di Adam Smith, si fonda infatti sul comportamento concorrenziale delle imprese. Diversamente, quando i prezzi possono essere manipolati, si può dimostrare che il mercato dà luogo a transazioni inefficienti che danneggiano il benessere dei consumatori.

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 * University of Durham, Regno Unito.

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