Aspettando il nuovo dei Queens of the Stone age, il mio timore principale era riscontrare una volta per tutte che il frontman Josh Homme da pioniere dello stoner fosse diventato, invece, il re degli hipster: trasformazione, questa, iniziata con il precedente (pure ottimo) “…Like clockwork” e in qualche modo avallata anche dalle dichiarazioni del ‘rosso’, che preannunciava un mondo senza più chitarre e distorsioni come fosse un finale inevitabile verso cui non poter non tendere. Villains, prodotto da quel Mark Ronson che è un po’ (con le dovute proporzioni) il Quincy Jones dei duemila, non ha stranamente nulla di tutto ciò, e suona di gran lunga meglio del suo acclamatissimo predecessore: qualche riempitivo qua e là, questo sì, ma nel complesso una manciata di canzoni che hanno bisogno di essere ascoltate più e più volte (ad eccezione del primo singolo The way you used to do), e che stanno lì a ribadire di non essere finite dentro l’album tanto per riempire la distanza tra un orecchio e l’altro dell’ascoltatore.

Negli ultimi anni, l’hype attorno ai Queens of the Stone age è cresciuto a dismisura, facendo del gruppo una delle band che più facilmente vengono associate all’aggettivo rock, e arrivando come nel caso del brano Smooth Sailing a far comparire il gruppo addirittura all’interno di uno spot pubblicitario: una roba impensabile, forse, ai tempi delle fortunate Desert sessions o nei giorni immediatamente successivi lo scioglimento dei Kyuss. Ma tant’è, la determinazione di Homme sembra aver pagato l’impegno profuso dallo stesso: musicista poliedrico e, ormai, personaggio da copertina indiretto protagonista anche della tragedia del Bataclan per essere (più su disco che dal vivo) membro anche degli Eagles of death metal, con i quali quel giorno non era (fortuna sua) presente on stage. Così, con l’ennesimo colpo di scena, Villains arriva a noi come un album più che complesso, tutt’altro che immediato: quando tutti invece attendevano la definitiva transizione verso lidi più abbordabili gridando – fino a strapparsi i capelli – al sacrilegio e al sacrificio di uno degli ultimi gruppi veramente “alternative”.

Con lo sguardo rivolto più verso il passato di Lullabies to paralyze ed Era vulgaris, i Queens of the Stone age recuperano la formula ossessivo-compulsiva del “robot-rock” con il quale si erano autodefiniti, omaggiandosi e citandosi senza però ripetersi stucchevolmente. Dei 48 minuti che rappresentano l’arco di sviluppo dell’opera, diverse canzoni si inseriscono di diritto tra le migliori mai scritte dalla band: dal colpo di coda danzereccio assestato con l’opener Feet don’t fail me, al pugno nello stomaco dell’ultima, acidissima, Villains of circumstance, passando per le ottime Domesticated animals, Head like a haunted house, Un-reborn again e Hideaway.

Non un capolavoro, assolutamente no, ma un album che mantiene le aspettative forse pure superandole: dedicato a chi temeva che Homme e i suoi sodali non fossero ormai più in grado di colpire lasciando il segno, zittendo i dubbi in primis del sottoscritto che avrà un motivo in più per vederli nell’unica, finora, data italiana il 4 novembre prossimo all’Unipol Arena di Bologna.

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