Materiali innovativi, reti energetiche, infrastrutture. E poi ancora nautica, calcio, telecomunicazioni, banche. Sono tutti settori in cui Pechino ha deciso di puntare una fiche in Italia dove, tra il 2000 e il 2015, aveva già realizzato oltre 20 miliardi di investimenti. Permasteelisa, passata dai giapponesi di Lixil ai cinesi della Grandland, è solo l’ultimo tassello di un più ampio piano di acquisizioni cinesi in Italia, che il presidente Xi Jinping considera la strada maestra per aumentare il traffico delle merci cinesi nel Vecchio Continente. Ma c’è di più: l’acquisizione del gruppo di Vittorio Veneto è anche l’esempio concreto di come Pechino intende muoversi all’estero dopo aver varato una stretta sugli investimenti oltreconfine nel mattone, nel turismo, nel gioco d’azzardo e nell’entertainment. Dopo lo shopping sfrenato che nel 2016 in Europa ha raggiunto i 35,1 miliardi (dato Rhodium Group/Mercator Institute for China Studies di Berlino), la Repubblica Popolare ha deciso infatti di puntare su settori strategici, altamente innovativi e funzionali al progetto di strappare il ruolo di locomotiva mondiale dell’economia agli Stati Uniti. Di qui il senso di acquisizioni come Permasteelisa e dell’interesse manifestato dal gruppo cinese Great Wall per il marchio Jeep se non per l’intera Fca.

Davvero difficile immaginare che la vecchia Fiat possa passare in mani orientali. Ma a scanso di equivoci e visti i tempi che corrono, Italia, Francia e Germania hanno pensato di correre alzando le barricate: i tre Paesi hanno da tempo proposto a Bruxelles il rafforzamento dei poteri in mano ai governi europei nelle operazioni straniere realizzate da Paesi che non rispettano le regole del mercato e non attuino parità di trattamento. Tuttavia, nonostante le scaramucce comunitarie, a Pechino sono convinti del fatto che Roma non chiuderà mai le porte a un partner così importante. Anche a costo di mancare qualche opportunità di sviluppo come è accaduto nel caso Stx con Fincantieri accusata dai francesi di trasferire tecnologia a Pechino attraverso la partnership nella crocieristica con i cinesi della Cssc.

Per l’Italia, del resto, in più di un’occasione, i capitali della Repubblica Popolare sono stati una manna dal cielo per risolvere vicende spinose. Di recente hanno tolto le castagne dal fuoco alla Fininvest che, il 13 aprile di quest’anno, ha ceduto per 520 milioni la squadra del Milan alla cordata Rossoneri Sports Investments Lux guidata da Li Yonghong  in un’operazione finita nel mirino delle autorità cinesi. E già in precedenza, la Cina aveva avuto un ruolo fondamentale nella ristrutturazione finanziaria che ha segnato il passaggio di mano della Pirelli alla ChemChina. Sempre Pechino aveva poi “salvato” con la Shandon Heavy Industry Group il gruppo della cantieristica navale Ferretti, spolpato negli anni dalla finanza più aggressiva. Ma soprattutto, a luglio del 2014, la società pubblica mandarina State Grid corporation aveva acquistato il 35% della Cdp reti che detiene il controllo delle infrastrutture elettriche e del gas dell’intera Penisola in un’operazione politicamente molto discussa.

Non solo, negli anni i capitali cinesi sono entrati nello strategico comparto delle telecomunicazioni con una piccola partecipazione nel capitale di Tim e con lo sviluppo di H3G. Senza contare la crescita esponenziale del produttore cinese di apparati di rete per le telecomunicazioni, Huawei, diventato un fornitore dello Stato italiano. E poi ancora l’attenzione per le tecnologie innovative dei cavi di Prysmian, e per alcune fra le più importanti società quotate del Paese come Generali, Eni, Enel, Intesa, Mps, Unicredit sempre con piccole quote sotto il 2 per cento. Nella campagna acquisti della Cina in Italia non è mancato poi un capitolo riservato alla moda con l’acquisizione di Mariella Burani fashion group, Curiel, Krizia, Buccellati. Quanto basta per iniziare a costruire un polo asiatico del lusso che proprio non va giù ai francesi, ad oggi i leader mondiali del settore. Anche in Asia.

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