Venerdì, ore 12 e 30, centro di Roma, zona Campo de’ Fiori. Fa caldo. Quel caldo di fine luglio che non sai più nemmeno se dipende dalla temperatura reale o dal fatto che nelle ultime settimane ne hai assorbito così tanto, che forse è più dentro, che fuori di te. Quel caldo che quasi allarga i confini della visione, rende l’atmosfera perennemente surreale. Allora, ecco che li vedo.

Sono in tre. Una famiglia. Genitori tra i 40 e i 50, bambino sotto i 10 anni. Lei ha una sorta di tailleur, capelli lunghi, trucco, parla al cellulare. Dal tono di voce – serio, vagamente impostato, ostentatamente efficiente – si capisce che sta lavorando. Lui, occhiali, jeans e camicia, dà una mano al bambino, con l’altra digita sui tasti dello smartphone. Il figlio ha i capelli ricci, le lentiggini e l’aria stravolta. Un’esclamazione gli esce dal cuore: “Papà, guarda!”. L’appello arriva con cotale urgenza, che mi fermo a guardare anch’io. Eppure, il piccolo, non ha un pupazzetto, non ha un disegnino, non ha neanche uno spinner, un pallone o un aggeggio elettrico di qualche tipo in mano.

Che cos’è che deve guardare il genitore? Allora capisco. Gli sta dicendo: “Papà, guarda dove metti i piedi”. O anche – visto che siamo tutti in mezzo alla strada “Papà, guarda le macchine”. L’associazione mi sorge spontanea.

Mi torna in mente quando qualche giorno fa un quasi-decenne mi ha lanciato un’occhiataccia e con aria di rimprovero totale e definitiva mi ha detto: “Tu giochi con il cellulare, più di quanto io gioco con l’Ipad. Ma io sono un bambino!”. Sgamata. Ha capito inequivocabilmente che per me lo smartphone è prima di tutto la variante adulta della copertina di Linus. Poi, ha provato a sequestrarmelo. Ovviamente, non c’è riuscito. Però l’ho spento. Addirittura per due ore. Che sia questo il risvolto educativo del cattivo esempio, la rivoluzione dal basso (nel senso fisico del termine)?

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