L’autorevole organo ufficiale della Santa Sede è intervenuto, con un commento significativamente intitolato “Due pesi e due misure”, sui fatti di Ratisbona, lamentando l’eccessiva durezza con la quale i media (e in particolare il mio pezzo sul Fatto Quotidiano di venerdì scorso) tratterebbero gli scandali della Chiesa Cattolica. Nelle caserme, si legge nell’articolo, si commettono crimini analoghi e nessuno pare indignarsi. Quando invece il problema riguarda la Chiesa Cattolica, come per i fatti di Ratisbona, la pietà per l’istituzione sarebbe accantonata e la crudeltà giornalistica esaltata. E poi, a Ratisbona, puntualizza L’Osservatore Romano, si sarebbe trattato soprattutto di “interventi maneschi” (547 casi accertati) più che di abusi sessuali (67 casi). I primi sarebbero, per l’Osservatore Romano, bontà sua, “deprecabili”, “ma certo meno gravi degli stupri”.

Consiglio ai giornalisti dell’autorevole testata di leggere meglio il rapporto dell’avvocato Weber: vi troveranno, oltre a quella dei tanti abusi sessuali, la descrizione di ragazzini delle elementari tempestati di pugni sul volto o costretti a ingoiare il proprio vomito o picchiati selvaggiamente con bastoni e mazze, infilati sotto docce bollenti o gelidi e tante altre azioni del genere. Non di simpatici buffetti o di “interventi maneschi” si è trattato dunque, ma di torture da lager compiute su bambini terrorizzati e impotenti. I crimini non si commettono solo a letto, se c’è di mezzo il sesso, come forse pensa qualche perbenista.

La gravità dei fatti di Ratisbona, nel merito solo rapidamente accennati nell’articolo senza pronunciare una sola parola di vicinanza alle vittime, sarebbe stata esagerata ad arte da inveterati nemici della Chiesa, che avrebbero approfittato dell’occasione per sparare contro il loro bersaglio prediletto, secondo una consumata abitudine a criminalizzare il cattolicesimo.

L’Osservatore Romano ha insomma scelto la linea del vittimismo, dell’ingiusta persecuzione. Lo dico di nuovo con chiarezza: se questa rimarrà la linea vaticana, la Chiesa andrà incontro a grossi guai. Piangersi addosso potrà sortire l’effetto di compattare i fedelissimi più tradizionalisti, i credenti meno maturi, quelli per i quali ogni critica alla Chiesa Cattolica equivale ad un atto di lesa maestà, ma non impedirà che sull’istituzione si riversi un’immensa quantità di discredito e di disaffezione popolare, come è avvenuto ad esempio in Irlanda, dove una Chiesa un tempo potentissima è oggi ridotta al lumicino anche in ragione degli scandali legati alla pedofilia. E poi quale credibilità può provenire dalla posizione puerile di chi, accusato di una colpa grave, si lamenta del fatto che un altro non abbia subito la stessa sorte? Chi può credere che la più antica, ricca e potente istituzione religiosa dell’Occidente sia una creatura ingiustamente maltrattata, debole e bisognosa di protezione? E infine chi non comprende che se si dà il risalto che meritano a notizie come quelle di Ratisbona si incoraggiano altre vittime a venire finalmente allo scoperto, a denunciare gli aguzzini?

La verità è che la Chiesa Cattolica ha alle sue spalle una vicenda millenaria che, al pari di ogni altra storia umana, ha prodotto azioni magnifiche ed edificanti e crimini orrendi. La pedofilia è uno di questi ultimi. Per capire da dove essa provenga, per comprendere come sia stato possibile che a Ratisbona, e in altri luoghi simili, vi fosse un’enorme concentrazione di sadici e perché nessuno li abbia fermati e denunciati, perché cioè la violenza, anche sessuale, e l’abuso siano diventati, lì e altrove, sistema, cultura condivisa, per far luce su tutto questo è necessario avviare una spietata indagine autocritica, è indispensabile incominciare davvero a riflettere, senza paure, sulla mostruosità di quei gesti e sulla ragione per la quale sono stati compiuti proprio lì e proprio da preti e casomai sollecitare l’emersione di nuovi casi, mettere in moto un gigantesco processo di pulizia morale e spirituale che deve inevitabilmente riguardare anche il passato: un’azione terrificante e spaventosa, me ne rendo conto, per un’istituzione poco incline al cambiamento e agli esami di coscienza collettivi come la Chiesa Cattolica e però anche l’unico modo per combattere lo “spirito di Ratisbona”, ovvero il sentimento di onnipotenza, il percepirsi come creature autorizzate a fare di tutto, ad usare e abusare del prossimo trattandolo come un mero strumento per il proprio piacere, a governare i corpi e le coscienze con la brutalità, l’inganno e l’arbitrio, senza riconoscere l’umanità e la sofferenza dei deboli e degli indifesi e senza la capacità di ammettere le proprie responsabilità, di riconoscersi colpevoli, di fare autocritica.

In ogni caso, invocare brutture analoghe commesse altrove, ad esempio nelle caserme, non aiuta e rappresenta un penoso tentativo di distogliere l’attenzione dal problema, di far concentrare il pubblico sul dito che la indica e non sulla luna. E’ chiaro che verso le illegalità commesse nelle caserme in un regime democratico bisogna usare, anche da parte della stampa, un’inflessibile severità, ma va anche ricordato che le chiese non sono eserciti (e non solo perché nei primi sono assenti le vittime più deboli, cioè i bambini): esse, soprattutto ai giorni nostri, nel clima di libertà nel quale per fortuna viviamo, prosperano se le persone si convincono che al loro interno soffia un vento di autenticità, di bellezza e di amore. Esattamente il contrario di quello, lugubre, criminale e malvagio, che spirava a Ratisbona e in tanti altri luoghi simili, quelli che abbiamo già scoperto e quelli che probabilmente verremo a conoscere presto (perché di storie come queste rimaste nell’ombra ce ne sono ancora tante). Non capirlo significa lanciarsi verso il precipizio senza paracadute.

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