La prima reazione di chi legge è abbastanza ovvia: ecco l’ennesima “ex moglie di” – Debora Roversi, prima moglie di Andrea Pirlo – che vuole continuare a fare il suo ricchissimo tenore di vita dopo il divorzio, e si lamenta per la recente sentenza della Cassazione che ha deciso che il marito non è tenuto a garantire lo stesso tenore di vita precedente alla separazione. Insomma, una lettera, quella mandata a Vanity Fair, per difendere il suo lauto assegno, scritta nell’indifferenza delle condizioni di vita delle donne e in particolare dell’ex mogli italiane “normali“.

Eppure così non è. Bisogna leggerle con attenzione le parole che Debora Roversi, moglie del calciatore per 13 anni e mamma di due bambini, ha messo nero su bianco per spiegare al mondo perché, secondo lei, è giusto nel suo caso, ma anche e soprattutto nel caso di tutte le donne che scelgono di seguire la carriera del marito sacrificando la propria, che l’ex coniuge dia un assegno anche a loro. Specie quando poi non versi in condizioni di indigenza.

Debora Roversi sceglie anzitutto di fare chiarezza, e spiegare la sua situazione, e la storia che l’ha condotta in quella situazione, per evitare malintesi e strumentalizzazioni. E c’è da credere – perché no, forse che le donne benestanti devono essere forzatamente ciniche e bare solo perché tali, è un moralismo da strapazzo – che sia in totale buonafede. La cosa importante di questa lettera è che lei esplicitamente dichiara di parlare a nome “delle donne di ogni ceto sociale”, che hanno donato la “propria esistenza per la realizzazione dei sogni e dei progetti dell’uomo amato”. Anche qui, di sicuro c’è buona fede, perché è vero, quella sentenza realmente danneggia tutte le donne di ogni ceto sociale, anche se molte non l’hanno capito e continuano incredibilmente a parlare di normativa equa. Così se una donna famosa ne parla, attirando l’attenzione sulle paradossali conseguenze che si stanno creando, anche le altre ne possono trarre vantaggio.

Al di là della precisazione che la Roversi fa sull’entità del suo assegno, ciò che conta è il suo ragionamento. Parla di un amore fatto di “abnegazione e rinuncia”, di un ruolo portato avanti con “spirito di partecipazione e sacrificio”, e svolto per garantire ad un uomo sempre più famoso “sicurezza, serenità, concentrazione”. Ancora: “Nessuna interferenza, nessun condizionamento: approvazione e sostegno continui, dominio e negazione della mia vita per il suo bene e per il suo sogno”. Sembrano parole forse esagerate, forse scritte anche con lo scopo di difendersi da una possibile revisione del suo mantenimento. Ma dire che “il ruolo della moglie di un campione è decisivo”, e che contribuisce alla sua carriera è vero, perché sono gli stessi giocatori, spesso, a scegliere donne pronte ad appoggiarli anche a scapito della propria realizzazione, oltre che a curarsi quasi interamente dei figli (anche perché si tratta di un lavoro che comporta spostamenti frequenti). Va bene, hanno baby sitter e tate a gogo, ma prendersi cura di un figlio può voler dire anche scegliere davvero di seguirlo, anche se si è ricche e potenzialmente di quei figli ci si può dimenticare.

Dire che un “dono” di questo tipo non può essere gettato nell’oblio da parte di chi ha realizzato il progetto può sembrare ottocentesco, ma non è del tutto sbagliato. Dire che “quando una donna ha contribuito alla ricchezza del marito perdendo le chances per la propria autorealizzazione” è giusto assegnarle “un compenso proporzionato al proprio contributo” è corretto. E lo è a maggior ragione per donne normali, che non sono né ricche né famose e che pure in Italia continuano a decidere – insieme al marito, spesso spinte proprio da lui – che è più opportuno, meno stressante, migliore per i bambini appoggiare la carriera di uno dei due invece che portare avanti due carriere. Con conseguenze in termini di aumento esponenziale del conflitto e difficoltà nella gestione dei figli. Non sto dicendo che si tratti di una scelta giusta, sto dicendo però che accade, ancora oggi e più spesso di quanto appaia, perché talvolta è l’unica situazione che abbassa il livello della tensione. Soprattutto, e questo è un dato fondamentale, in un periodo in cui non esistono più tranquille carriere di insegnamento o impieghi ministeriali, visto che lavorare oggi significa lottare con fatica immensa, guadagnare pochissimo, vivere in condizioni di precarietà, portare a casa meno soldi della baby sitter. È per questo che oggi, paradossalmente, molte giovani donne scelgono la casa, anche perché per fare un figlio c’è bisogno di spazio fisico e mentale, di tempo, di riposo, non siamo mica macchine.

Allora è tanto facile dire: “Donne, state sbagliando, non lasciate mai il lavoro, pensate a realizzarvi, altrimenti vi ritroverete giustamente sono i ponti”, ma si tratta di una frase del tutto retorica, ipocrita, quasi irritante, che non tiene conto – così come non ne stanno tenendo conto i giudici che nei primi casi ispirati alla sentenza della Cassazione valutano soprattutto l’età della donna – della difficoltà di trovare oggi in Italia un lavoro decentemente retribuito. Conosco decine di giovani donne che ci hanno provato, ma poi sono arrivato a trentacinque anni ancora perse tra stage e co.co.co. e a quel punto hanno deciso che il proprio lavoro non era così importante quanto avere un figlio e hanno preferito averli, i figli, contando sullo stipendio del marito o compagno. Devono essere punite per la scelta di aver messo al mondo dei figli, come tra l’altro i politici invitano a fare in vista dell’abisso demografico nel quale stiamo cadendo?

Insomma, qual è l’alternativa? Forse c’è, ma ha un prezzo carissimo. Fiere e indipendenti, seguiamo la nostra carriera a basta, fregandocene di quella del compagno e mettendo come primo obiettivo la nostra autorealizzazione. Però allora no, non chiedeteci anche di fare i figli. E allora il risultato sarà, tranne per poche fortunate che riescono a trent’anni ad avere un contratto a tempo indeterminato – cosa che per le nate negli anni Ottanta-Novanta è ormai un’utopia – che avremo molte donne forse un po’ meno povere in caso di separazione, benissimo, per carità, ma ancor più senza figli, che ogni nascono necessariamente da acrobazie, compromessi, rinunce. A me non sembra un bel risultato. Per le donne, gli uomini, il paese.

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