Quello che racconta scivola bruciante sul lettore come una colata lavica, lo stesso magma del vulcano che Letizia Dimartino riesce a intuire, oltre le cime dei monti di Ragusa dove vive. Classe 1953. Non si dovrebbe dire l’età di questa bella signora siciliana, dai verdi occhi austeri, aristocratica, eppure di una bontà magnanima (lasciatemi il vezzo pleonastico di ribadire una virtù rarissima). Esce con un romanzo dal titolo Direzione Inversa, per il Seme Bianco di Michele Caccamo.

Questo romanzo ha una storia straordinaria. È il risultato di una esortazione corale, lo hanno preteso i suoi lettori di Facebook. Perché Letizia Dimartino è stata per molti dei suoi lettori: la scrittrice di Facebook. Scriveva i suoi post ogni mattina, esercitavano un inesplicabile potere di trasformazione, nel passaggio all’altro, erano micro universi resi pubblici, in delicate finestre sull’esistenza amena o diafana dei suoi stessi giorni. Non erano costanti e quotidiani semplicemente e soltanto, un riflesso magico alla portata di tutti, contenevano altro, altro potere, altro desiderio, misteriosi, demiurgici.

I lettori aumentavano, la scrittrice che non aveva mai pubblicato (a eccezione di alcune poesie, nel raffinato Almanacco curato da Maurizio Cucchi, e altre piccole cose, belle ma piccole per il numero di destinatari), era amata anzitempo come e più di una pluritradotta acclamata stella dei salotti che contano. Letizia è la stella dei social. Umile e gentile. Timorosa e ignara del talento che la abita. E così è arrivato Direzione Inversa. Michele Caccamo, l’editore, raccoglie la sfida, si incuriosisce. Legge Letizia, ogni mattina. Decide di pubblicarla.

Cosa racconta Letizia? I suoi interni borghesi sono intimi, consolano o fanno rabbrividire con lo struggimento del ricordo che riappare nelle cose morte, eppur vive, portatrici di nostalgia, silenziose ma complici di quel che era un dì. Gli anni di Letizia, raccolti in stanze, in case, in nobili camere patrizie su paesaggi arsi e primitivi, nelle campagne iblee, dove riparano le mulattiere affaticate, si intercettano le ombre dei carrubi, e il mare è lì in fondo all’orizzonte.

Procediamo con Letizia, nel suo romanzo di ricordi, un memoir dentro la storia di un paese, in una Sicilia collocata, precisa, con i suoi colori ottenebrati dalla luce cieca, la piccola storia dentro una grande storia. Ricordiamo le nostri estate in un giardino di limoni; il chiosco, gli uomini dai sorrisi larghi, le donne con l’ampio petto e le spille annodate con rametti di gelsomino. I bambini accaldati, il fuoco ardere nella vallata, il profumo di resina che ridonda intorno. Letizia ci racconta. E ognuno ritorna alla sua estate, o ai lunghi inverni, a un tempo, a una casa, una memoria raccolta, serbata in stanze. La scrittrice della maturità, che non ha cercato altro se non la vita, dagli scuri spalancati, dal suo dignitoso dolore (cronico, fisico), dentro cui spiarla, ricordarla. A volte con malinconia, con rimpianto, spesso con amore, governato solo dagli anni. Ma gli anni sono ancora stanze, immobili, fedeli.

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