“Sono povera ma felice. Per favore aiutatemi”. “I’m poor, but happy. Please, help me”. Qualche anno fa, quando ero piccola (diciamo così), a Largo Argentina, a Roma, vedevo sempre una mendicante – straniera – che chiedeva l’elemosina davanti al teatro con questo cartello.  E tutte le volte notavo quelle parole, ci rimuginavo. “Trovata geniale? Autoironia sublime? Segno di disperazione massima?”. Dover chiarire “sono felice” e dunque, “non vi farò venire sensi di colpa, non vi chiederò soluzioni alla mia intera esistenza, non dovrete compatirmi, empatizzare con me, preoccuparvi, ma solo darmi qualche spicciolo” (traduzione mia), mi sembrava un segno di intelligenza e grande discrezione, e pure – a specchio – il sintomo di un egoismo generale abnorme.

Vabbè. Già mi pare di sentire qualcuno che mi dice “Wanda, dai, era solo un cartello!!”. Chissà. Comunque, quelle parole mi sono tornate in mente qualche tempo fa. Quando a un certo punto, una mattina, un’amica mi manda una foto via WhatsApp. Raffigura un cartello: “Gentili signore e signori, desidero integrarmi onestamente nella vostra città senza chiedere l’elemosina! Da oggi terrò pulite le vostre strade. Vi chiedo soltanto un contributo di 50 centesimi per il mio lavoro. Buste, scope, palette e altro materiale per la pulizia sono ben accetti. Grazie”. Segue altra foto, con i mucchietti di spazzatura raccolti e ordinati. La cosa mi colpisce, mi intriga. Approfondisco: si tratta di un ragazzo, straniero, che tiene pulite le strade del Fleming, uno dei quartieri più snob di Roma (Nord). Anzi, in realtà non è un ragazzo, sono quattro, scopro, quando decido di andare a vedere.

A via Nitti, mi accolgono in due. Uno, piccolo e bassino, si chiama Abbas, ha 21 anni, e viene dalla Sierra Leone. Mentre mi parla, guarda da un’altra parte. È timido, e il cappellino sembra una specie di protezione dal mondo. L’altro di anni ne ha 19 anni, è alto, estroverso, si chiama Benjamin, parla un inglese perfetto, e arriva dalla Nigeria. Tutti e due sono venuti in Italia su un barcone e vivono nel campo di Castelnuovo di Porto. Si sono inventati questa cosa, mi spiegano, perché si vogliono rendere utili, non chiedere soldi e basta. Fanno una decina di euro al giorno e si dichiarano soddisfatti. Zero lamentele, zero recriminazioni. “Lei sembra gentile. Mi trova un lavoro? Io faccio tutto”, mi dice Benjamin, con un sorriso da un orecchio all’altro. Ed ecco che io mi scervello, mentre spontaneamente gli rispondo, come se fosse un amico mio. “Eh, mo’ un lavoro, qui, in tasca, non ce l’ho”. Il contrasto con il quartiere mi fa ancora più effetto. Accanto a loro, una scuola. Di fronte ci sono una sartoria, un bar, un negozio di vendita e assistenza computer. Tutto ordinatissimo, asettico. Piuttosto respingente. Entro ed esco da tutti, chiedendo ragguagli sugli spazzini improvvisati. Commenti prudenti, col contagocce: “Sono bravi, non disturbano, tengono pulito”. Mi colpisce una signora: “Dovrebbero mandare sempre loro! Sono utili! Invece di quelli che vendono calzini!”. Non riesco a non rispondere, anche se mantengo un tono (relativamente) educato: “Ma dovrebbero chi???? Si mandano da soli, per guadagnare abbastanza per mangiare”. Lei mi guarda, perplessa. Non so se ha capito che non è un servizio del Comune di Roma, ma la trovata di chi cerca di campare.

Un ultimo sorriso ai due, e vado via. Racconto la cosa in giro. E scopro che esiste un mondo. Un amico mi manda una foto: “Eccone uno, a via Valadier, a Prati, sotto la vecchia sede del Fatto”. Si moltiplicano i messaggi. “Wanda ce n’è uno a Trastevere, a via Natale Del Grande”. “Occhio, che ne ho visti un paio a piazza Ungheria”. “Fai un salto a viale Regina Margherita, sono anche lì”. Insomma, io non me n’ero accorta, ma Roma si è riempita di un esercito improvvisato di omini con cappellini, scope e palette, che appaiono all’alba e si dissolvono verso l’ora di pranzo. Tanto è vero che – alla fine – ne avvisto un altro, casualmente, a via Gallia. Il cartello è lo stesso di quelli di via Nitti. Da approfondire questo franchising improvvisato. Chissà se c’è anche una centrale che lo organizza. Lui di anni ne ha 27, arriva dalla Nigeria, parla bene l’italiano, perché è qui da un paio d’anni e s’è impegnato, e abita in una casa in città. Sguardo aperto e diretto, mi spiega: “Sì, puliamo le strade. Vogliamo integrarci. Non mi piace chiedere l’elemosina tutti i giorni, in cambio di niente. Voi potreste sempre dirmi: ‘Ma perché non ti trovi un lavoro???’”. Lo guardo, lo studio. E mi ricordo la tipa di Largo Argentina. Un tempo, ci rassicuravano: “Sono povera, ma felice”. Oggi ci assicurano: “Voglio solo essere uno di voi”.

 

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