E’ stato trovato morto nella sua abitazione l’uomo ricercato per l’omicidio di Ester Pasqualoni, l’oncologa uccisa alla fine del suo turno nel parcheggio dell’ospedale in cui lavorava, a Sant’Omero, cittadina in provincia di Teramo che si trova a una quindicina di chilometri dalla costa abruzzese. Il presunto assassino si chiamava Enrico Di Luca, aveva 69 anni, era di Martinsicuro ed era un ex investigatore privato. Soprattutto aveva una Peugeot che è l’auto che è stata vista allontanarsi subito dopo che la dottoressa era stata trovata esanime nel parcheggio. L’auto era stata poi trovata nel parcheggio condominiale dello stabile in cui Di Luca viveva. L’ex investigatore si è tolto la vita probabilmente subito dopo l’omicidio. Secondo le prime informazioni raccolte dall’Ansa si è strangolato con una fascetta di plastica ed è stato trovato in un appartamento di uno stabile di case di mare in cui aveva abitato nel passato ma dove sarebbe entrato violando la proprietà, forse usando un passepartout.

Ester Pasqualoni, 53 anni e due figlie, vedova da qualche anno, è stata uccisa a colpi di roncola, alla gola e alla nuca, nel parcheggio dell’ospedale di Sant’Omero. Era appena uscita dal lavoro (era responsabile del day hospital nel reparto di oncologia) e si stava avviando alla macchina per tornare a casa. Due testimoni hanno indirizzato le indagini su Di Luca, racconta il quotidiano abruzzese Il Centro: entrambi erano affacciati a finestre delle palazzine dell’ospedale. Uno dei due ha notato allontanarsi un uomo calvo e corpulento e un’auto bianca (come la Peugeot). Altre due persone, invece, hanno dato l’allarme dopo aver visto il corpo della dottoressa a terra esanime. Uno ha chiamato i carabinieri, l’altra – una dipendente Asl – ha chiesto aiuto al pronto soccorso.

Pasqualoni e Di Luca si conoscevano dal 2005. Secondo quanto riferisce l’Ansa la Pasqualoni aveva presentato al commissariato di Atri non una denuncia per stalking, ma un esposto, a inizio 2014. Qui dentro, spiega l’Ansa, la donna parlava di una “relazione di amicizia” e precisava che Di Luca si era sempre “comportato bene”, fino alla fine del 2013, quando ha cominciato a “temere per la propria incolumità“. Tra l’altro la dottoressa aveva cominciato a ricevere messaggi insistenti. In alcune occasioni lo aveva trovato sotto casa e nei luoghi da lei frequentati. Nell’esposto non si parla di aggressioni o minacce ma di attenzioni insistenti e continue. La dottoressa aveva anche indicato dei testimoni, subito ascoltati dalla polizia.

All’esposto erano seguiti degli approfondimenti e il successivo ammonimento del questore. Per questo a Di Luca era anche stato ritirato il porto d’armi. Da quel gennaio, la donna si era poi nuovamente rivolta alle forze dell’ordine ad aprile 2014 quando, trovandosi a camminare per Roseto degli Abruzzi, dove risiedeva, aveva chiamato i carabinieri segnalando che l’uomo era passato con l’auto e sembrava la stesse riprendendo. A quel punto, proprio a fronte dell’esistenza del provvedimento di ammonimento, i carabinieri di Roseto avevano fermato l’uomo, sequestrandogli la telecamera che aveva in macchina, e trasmesso un fascicolo in Procura.

Dopo la convalida del sequestro, chiesta dal pm di turno, il fascicolo era passato ad un altro sostituto procuratore che, sulla scorta di ulteriori accertamenti e anche della visione dei filmati della telecamera sequestrata, aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo che era stata comunicata anche alla parte offesa che avrebbe fatto, tramite il suo legale, richiesta di accesso agli atti ma nessuna richiesta di opposizione. Dopo l’archiviazione del fascicolo da parte del gip, nessun’altra denuncia. Il provvedimento di ammonimento tuttavia era ancora in corso, non essendo mai stato revocato.

“Per noi questa vicenda è sicuramente una grande sconfitta” dice il capo della polizia Franco Gabrielli. A margine del convegno “La vittima al centro” alla Scuola Superiore di Polizia, ha aggiunto che vicende come queste “sono un imperativo e una sollecitazione a tenerle sempre e comunque nel debito conto” perché “le vittime devono essere i soggetti primari della nostra attività, soprattutto nei reati di genere“. Gabrielli ha ricordato che “oggi ci sono strumenti come l’ammonimento, l’allontanamento, che prima non c’erano” ma che “in alcune situazioni, come quella nel Teramano, non sono stati sufficienti”. “Purtroppo – ha aggiunto Gabrielli – questo può accadere. Questi comportamenti hanno una gamma di modalità di che può portare anche a situazioni tragiche ma non è che possiamo incarcerare tutti gli stalker“.

Il prefetto Gabrielli ha comunque sottolineato l’importanza della denuncia: “L’unico strumento perché le forze di polizia, la magistratura siano in grado di poter adeguatamente intervenire”. Ed infine ha esortato alla prevenzione “soprattutto di natura culturale”. “Io credo che ancora un passo significativo su questo versante debba essere fatto”. “Fino a che ancora molti maschi considerano le donne come oggetto, come proprietà – ha concluso – questo inevitabilmente dà luogo a queste situazioni. Quindi la repressione è importante, l’attenzione alla vittima è fondamentale ma anche il contesto sociale, che a volte è molto subdolo e molto pervasivo, e anche dove si immagina che a parole i diritti delle donne siano riconosciuti, nei comportamenti questo non lo è”.

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