“Tra sei mesi, o tra sei anni, o sia quando sia, Cuba sarà libera. E quando lo sarà, il popolo dell’isola dirà che la transizione cominciò qui, in questo teatro, con un presidente che ha fatto quel che si deve fare perché torni la libertà nell’isola schiavizzata di Cuba…”.

È stato Marco Rubio, senatore della Florida – sì, proprio quel Marco Rubio che, nel corso delle primarie repubblicane, Donald Trump aveva sistematicamente umiliato definendolo little Marco, il piccolo Marco – a pronunciare queste alate parole, cariche d’una “storica” consapevolezza e d’una speranza tanto affettatamente pompose nella forma, quanto – l’una e l’altra – pateticamente ammuffite nella sostanza.

Il teatro nel quale si andava, a detta di Rubio, scrivendo questo fondamentale capitolo della storia cubana era, nella serata di venerdì scorso, il Manuel Artime, tra la Flagler e la mitica calle ocho, nel cuore della little Havana di Miami. E va da sé che “il presidente che ha fatto quel che si deve fare”, era proprio lui, Donald J. Trump, il più impopolare inquilino della Casa Bianca della storia Usa, per l’occasione impegnato a presentare al mondo – o, più precisamente, al “piccolo mondo antico” del più giurassico settore dell’esilio cubano – il memorandum col quale definiva la “nuova politica cubana” della sua amministrazione.

Applausi, standing ovation, slogan gridati a piena voce – “viva Trump, viva Cuba libre” – ed entusiasmo alle stelle. Platea e strade adiacenti al gran completo, sia pur con manifestazioni di segno contrapposto. E il tutto con i veterani della Brigata 2506 (quelli dello sbarco della Baia dei Porci, anno del Signore 1961) molto opportunamente e molto ostentatamente in primissima fila, a testimonianza della continuità d’una politica che – non in “sei mesi o sei anni”, come pronosticato da “little Marco”, bensì in quasi sessant’anni – non solo non ha riportato la libertà a Cuba, ma è stata uno dei pilastri etico-politici del regime cubano.

Donald Trump – è appena il caso di farlo notare – s’è trovato perfettamente a suo agio in quest’atmosfera di incondizionata adulazione, illuminata persino, in un clima di generalizzata estasi, dall’“happy birthday, Mr. president” (Trump ha raggiunto suoi 71 anni appena qualche giorno fa) cantata dall’intero teatro. Ed è stato in questo clima vagamente nord-coreano che, il neo-eletto presidente ha da par suo risposto, esibendosi in quello che meglio sa fare. Ovvero: mentendo. Più esattamente: regalando alla più sclerotica parte dell’esilio cubano la menzogna che, da lui, quest’ultima s’attendeva. “Il memorandum che sono venuto a presentare – ha detto Trump tra gli applausi – è la totale cancellazione del pessimo accordo con il governo cubano (quello sottoscritto da Barack Obama, n.d.r.)”.

Falso. Degli accordi a suo tempo sottoscritti da Obama, il “memorandum” non cancella che una parte, quella relativa ai viaggi di cittadini statunitensi e quella relativa alle regole per investire a Cuba. Regole che, peraltro, ancora devono – e la cosa potrebbe durare a lungo – essere riscritte dal Dipartimento a Tesoro. L’ambasciata, riaperta da Obama, resta a suo posto. E al loro posto restano tutti i contratti già sottoscritti. Nella sostanza: la “nuova” politica di Trump verso Cuba, parte da un presupposto che testimonia una straordinaria ignoranza della realtà cubana (o, peggio, una propensione a prendere per i fondelli i propri interlocutori, nel caso specifico l’esilio più cavernicolo, che sembra peraltro gradire la cosa), dividendo l’economia cubana in due distinti settori: il militare ed il civile. Il primo va boicottato, il secondo favorito, al fine di creare una nuova “classe imprenditoriale” capace di, per così dire, spezzare le reni al comunismo.

Una tesi, questa, del tutto ridicola, per due motivi. Il primo: quello di Cuba non è, per quanto militarizzato, un regime militare. È un regime totalitario nel quale lo Stato, senza alcuna distinzione tra militare e civile, controlla tutti settori dell’economia. Il secondo: perché, nel “sabotare” la summezionata “economia militare”, il memorandum di Trump bada bene di non pestare alcun piede che conta. Tutti i contratti fin qui firmati da grandi imprese statunitensi– e firmati con la Gaesa, Grupo de Administración Empresarial, sotto il controllo dei militari – restano in pieno vigore. La Starwood potrà in tutta tranquillità continuare a costruire, insieme alla Gaesa, i suoi hotel di super lusso lungo la Quinta Avenida e nel centro storico dell’Avana. Carnival potrà senza problemi organizzare le sue crociere e le compagnie aeree americane potranno mantenere i propri voli.

Tutto quello che Trump ha offerto venerdì scorso nella giubilante atmosfera del teatro “Manuel Artime”, non è, alla prova dei fatti, che un cambio di toni retorici, un verbalissimo ritorno al passato. E con questo ha fatto felici tutti. Se stesso, con l’illusione di avere distrutto un altro pezzo dell’odiata “eredità di Obama”. Ed i relitti dell’esilio cubano, pronti come tutti i vecchi decrepiti a gioire in questa sorta di ritorno all’infanzia del proprio anticastrismo (qualcuno lo chiama rimbambimento).

Il problema è che, in politica, le parole contano. E, per quanto pomposamente ridicolo, questo ritorno al passato, inevitabilmente annuncia tempi difficili (e forse la fine d’una già esile speranza) soprattutto per quei nuovi settori della società cubana che andavano molto marginalmente e lentamente allentando il cappio del totalitarismo castrista.

Venerdì scorso la storia – la storia che Barack Obama aveva cercato di rimettere in cammino – ha fatto a Cuba un passo indietro. Ed è stato un brutto giorno (un ennesimo “trumpiano” brutto giorno) per tutti. Per Cuba, per gli Stati Uniti e per il mondo.

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