MILANO – Il miracolo non si è ripetuto. La magia che era emanata da quel piccolo capolavoro che era stata la luce della passata stagione, Miseria e Nobiltà, non si è propagata e allungata su questo nuovo I Promessi Sposi. La squadra non è cambiata: Michele Sinisi in regia, Francesco Asselta alla scrittura, Elsinor alla produzione, il cast di Miseria confermato in blocco, il teatro Sala Fontana milanese come fondale per una lunga tenitura (fino al 25 giugno) ben allestito con decine di forme di pane all’intervallo e torta nuziale nel finale. C’è da dire che Manzoni forse meno si prestava a una riscrittura rispetto a Scarpetta ed Eduardo. Il forte rischio, che comunque non si è verificato, era cadere e scivolare nel parodistico riproponendo un qualcosa di simile alla celebre versione tv del trio Marchesini-Solenghi-Lopez, o avvicinarsi al brillante I Promessi Sposi in 10 minuti degli Oblivion peraltro spostato sul lato canoro e musicale.

Se nella prima parte il sentore e l’odore di fondo erano riconducibili a Miseria, come coloritura, suggestioni, trovate e stimoli; la seconda virava pesantemente alla cupezza del Riccardo III, monologo dello stesso Sinisi, molto criptico, duro, essenza intimista e mistica di grovigli esistenziali e traumi. Questi Promessi sono divisi nettamente in due tronconi. Spumeggiante la prima tra jingle da Carosello e Bravi, cantanti neomelodici (qui emerge Gianni D’Addario guitto tonto o Azzeccagarbugli che strizza l’occhio da una parte a Di Pietro e dall’altra somigliante all’avvocato cialtrone John Turturro nella serie tv americana The night of), Don Abbondio (Stefano Braschi con la sua voce roca, risponde sempre presente) e la Perpetua in abiti tradizionali dell’epoca, mentre gli altri personaggi vestiti in maniera contemporanea con l’aggiunta dell’intuizione di un Don Rodrigo in versione femminile (Stefania Medri veramente soddisfacente).

Alle loro spalle, una “nave” di impalcature (di Federico Biancalani che sposa le idee con un artigianato ispirato) o cantiere con transenne da lavori in corso con fili d’acciaio esposti, cavi che spuntano e s’issano al cielo che tanto somiglia a quelle abitazioni del Sud dove, in attesa delle nozze dei figli, si lasciano i tralicci ad arrugginirsi al sole. Sopra la scritta di protesta da writer di periferia Non s’ha da fare che nel corso della pièce perde quella negazione di tre lettere. Una voce fuori campo, al lato del boccascena, che cuce le scene, racconta e spiega e leggeva parti del romanzo appesantisce l’incantesimo del palcoscenico in modo didascalico e pedante. Renzo (Donato Paternoster c’è) è forte, duro, combattivo e protettivo e non si fa mettere i piedi in testa, Lucia (Giulia Eugeni, troppe volte le scappa il marchigiano) è in pattini in linea (come Silvia Calderoni dei Motus) e ha una corona-trina-aureola che al buio s’illumina. Leggermente retorico, ma funzionale il video dove i due amanti fuggitivi raccontano l’amore per la propria terra e il dolore nel doverla lasciare; accanto alle loro voci, quelle di migranti da ogni parte del mondo che, leggendo pezzi manzoniani, ci ricordano il parallelo tra il letterario e il reale, l’antico e l’oggi.

La seconda parte invece arriva inaspettata come un temporale dopo un cielo sereno e limpido. Nera, incupita, s’addensa di nubi gonfie. Dobbiamo riconoscere che, se nella prima parte “I Promessi Sposi” sono un road movie d’azione e figure macchiettistiche interessanti; nella seconda Le cinque giornate di Milano e la Peste contribuiscono a creare un clima da cappa densa. Ma qui Sinisi e soci non trovano la quadratura del cerchio, non riescono a risolvere e a trovare una chiave di lettura in linea con l’approccio precedente. Prima l’analisi del testo, posticcia, sul divano, poi l’interrogazione di un docente (Ciro Masella non riesce ad emergere, troppo frammentario il suo apporto, anche nelle vesti di Cardinale Borromeo: non è messo nelle condizioni di spingere), ma potrebbe essere anche un presentatore tv e l’allieva-concorrente. Gravosa questa prolungata scena, dove si pensa di essere immersi prima in Superquark con spiegazioni e cartine e date e battaglie (qui Diletta Acquaviva ne rimane compressa) poi in Voyager per finire, con l’arrivo di una pulce gigante (vengono in mente sia Il racconto dei racconti di Garrone, che La mosca di Cronenberg) da teatro ragazzi che ci conduce direttamente dentro Medicina 33. Manzoni ha schiacciato Sinisi.

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