Il lancio del Blueprint – la “visione progettuale” donata da Renzo Piano alla città di Genova come apporto libero e gratuito per il futuro urbanistico, portuale, industriale e sociale della sua città – è stato senz’altro stimolante, giacché ha mosso le acque un po’ stagnanti del fronte portuale e urbanistico genovese. Il Porto antico, ridisegnato per le Colombiadi (Expo 1992), era stato un successo, forse l’ultimo degli amministratori comunali. Ripetere questo successo a levante sarebbe una prospettiva vitale, una boccata d’aria per una città in crisi.

Se si esclude il capannone progettato da Jean Nouvel nei primi anni Duemila, a levante l’ultima innovazione degli ultimi 40 anni fu il Superbacino di carenaggio (si veda la galleria fotografica), una mega-struttura destinata al raddobbo (riparazione, ndr) delle superpetroliere da 350mila tonnellate che venivano costruite dopo il blocco del Canale di Suez alla fine della Guerra dei sei giorni (giugno 1967). La sua tormentata e penosa vicenda fu il risultato di errori di progettazione, valutazione e programmazione, per quanto si trattasse di uno strumento tanto importante quanto necessario per lo sviluppo del ramo industriale del porto di Genova.

La comica finale esplose a manufatto pressoché ultimato. I lavori furono interrotti all’improvviso e la struttura diventò un enorme ingombro, un intralcio, un gigantesco mostro da eliminare, dopo 20 anni di assoluta inoperosità. La politica sentenziò la vendita del Superbacino al miglior offerente, previa rimozione e trasporto dell’impianto fuori del porto. Al traino di un potente rimorchiatore russo di alto mare da 25mila cavalli, nel 1997 il Superbacino fu trainato, per ragioni di sicurezza, a ponente della Corsica e della Sardegna, passò a Sud della Sicilia e giunse felicemente, in circa 20 giorni di navigazione, tra le braccia dell’imprenditore turco che lo aveva pagato un dollaro, un prezzo simbolico. A Tuzla, in Turchia, iniziò la sua nuova vita; invero, la sua prima vita operativa che, si dice, sia tuttora molto produttiva.

Alcune indicazioni del Blueprint di Piano lasciano dubbiosi su come ad esempio mantenere 400mila metri quadrati di cantieri di riparazione navale che potrebbero forse trovare una collocazione migliore altrove, sempre a Genova. E, ancora, l’abnorme incremento (80mila metri quadrati) della terraferma redenta tramite il tombamento sia di un bacino, sia del porticciolo Duca degli Abruzzi. Con il modesto rispetto per il Palasport, è il padiglione più grande della Fiera progettato dagli ingegneri Finzi, Sironi e Pagani assieme all’architetto Martinoia: una struttura all’avanguardia mondiale per tipologia strutturale, schemi statici e metodi costruttivi; e che rimane un esempio saliente dell’uso del cemento armato per le tensostrutture, senza rompere la visione del mare.

Ciò che lascia perplessi, però, è la fine ingloriosa del concorso di idee, Blueprint competition, che il Comune di Genova aprì lo scorso anno al mondo dell’architettura. E rimase senza vincitori, un no-contest imbarazzante. Un gruppo di architetti mi ha scritto: “Il fatto che nessuno abbia raggiunto la soglia fatidica di punteggio racconta molto di un bando. Era richiesta una densità inspiegabilmente alta, talmente alta da risultare quasi un refuso e rendere praticamente impossibile un intervento sensato. Dopo qualche ragionamento, idee e prove, abbiamo desistito, altra alternativa all’andare fuori bando”. La nuova amministrazione che scaturirà dal ballottaggio elettorale dovrà misurarsi con questo fallimento.

È appena uscito in libreria il mio nuovo saggio: Bombe d’acqua. Alluvioni d’Italia dall’unità al terzo millennio, edito da Marsilio. Una storia idraulica, civile e politica della questione idrogeologica italiana, dall’unità ai nostri giorni. Dove il lettore potrà apprendere l’etimo e conoscere gli autori di un sintagma (“bombe d’acqua”) e di un aggettivo (“idrogeologico”) che usiamo solo noi italiani, senza essere perciò invidiati dal resto del mondo.

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