Nella città dell’Ilva il fronte ambientalista ha perso. Con l’accesso al ballottaggio di Stefania Baldassari, l’ex direttrice del carcere ionico sostenuta da un gattopardesco centrodestra (che in nome del civismo passa da Forza Italia e Forza Taranto pur mantenendo lo stesso identico logo) e da liste civiche, e Rinaldo Melucci, candidato del Partito democratico e di una parte del centrosinistra, emerge la sconfitta netta di un fronte ambientalista che, insieme, avrebbe raggiunto almeno il 30 per cento dei consensi. Un vero e proprio arcipelago che si è presentato al primo turno suddiviso tra 4 diverse candidature a sindaco: una scelta suicida che ha addirittura resuscitato il centrodestra ionico, politicamente defunto dal 2006, anno in cui, dopo due amministrazioni berlusconiane, il Comune di Taranto dichiarò il dissesto finanziario.

A guardare i numeri delle votazioni infatti, se i protagonisti della protesta ambientale avessero avuto la forza e l’umiltà di fare un passo indietro per offrire una proposta comune oggi avrebbero festeggiato l’accesso al secondo turno delle amministrative. E invece ognuno è andato per conto suo. I Verdi hanno candidato Vincenzo Fornaro, l’allevatore a cui la diossina dell’Ilva ha avvelenato centinaia di animali. Anche l’ex procuratore Franco Sebastio che ha coordinato l’inchiesta “Ambiente svenduto” e ha portato alla sbarra la fabbrica e la politica, non ha trovato alleati. Completamente solo anche Luigi Romandini, il dirigente della Provincia ionica che ha denunciato l’ex presidente Gianni Florido, anche lui finito a processo per le questioni ambientali a Taranto. E la stessa cosa vale per il Movimento 5stelle che a Taranto è strettamente collegato al “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti”, il gruppo che dal 26 luglio 2012 ha animato la protesta contro i veleni della fabbrica. Tutti soli. E così vincono il centrodestra e il centrosinistra: un ballottaggio che insomma ha il sapore del déjà vu. Le cause di questa frammentazione, inoltre, sono principalmente due: i regolamenti di alcuni partiti (come nel caso dei 5stelle con il divieto di apparentamenti) e soprattutto il protagonismo di molti. Ruggini personali, mancanza di umiltà e in qualche caso un ego ipertrofico hanno consentito di tornare indietro di quasi 20 anni.

Un discorso a parte merita invece il “brand Cito sindaco”. A differenza del 2012 il candidato Mario Cito, figlio di Giancarlo, ex sindaco e parlamentare condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e vero leader del movimento At6, non è arrivato al ballottaggio: la famiglia Cito perde quasi la metà dei voti rispetto alle ultime elezioni comunali, ma resta sempre tra i partiti più suffragati. Un punto da non sottovalutare: è la dimostrazione dell’incapacità della classe politica tarantina di esprimere personalità carismatiche in grado di far scomparire il “populismo citiano” che continua a sopravvivere (e neppure tanto male) a distanza di oltre 20 anni dalla sua nascita e di guai giudiziari che avrebbero seppellito qualunque altra forza partitica. A tutto questo bisogna aggiungere gli effetti dell’astensionismo: poco più di 4 persone su 10 hanno scelto di non votare. Un disinteresse ormai diventato cronico nella città dell’Ilva: non sono bastati neppure gli oltre 1100 candidati consiglieri comunali (praticamente 1 ogni 148 elettori e quindi quasi uno per famiglia) a riportare la gente ai seggi. Neppure una questione di portata sovranazionale come la vendita dell’Ilva (con le conseguenze sul futuro economico, sanitario, ambientale e sociale della città) è riuscita a smuovere o a scalfire l’indolenza dei tarantini. E così se una buona parte di Taranto rinuncia alla scelta e gli ambientalisti alle alleanze, restano i vecchi partiti e i veleni: quelli dei camini miscelati insieme a quelli che gli sconfitti hanno seminato in questa campagna elettorale. Anche per questi le bonifiche appaiono come un miraggio lontano.

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