Il piano per rilanciare l’Ilva presentato da ArcelorMittal e gruppo Marcegaglia, che pochi giorni fa si sono ufficialmente aggiudicati il siderurgico, secondo i tecnici incaricati di valutarlo non stava in piedi. Poco male per i commissari governativi, che lo hanno comunque giudicato migliore rispetto a quello della cordata concorrente Acciaitalia. E anche per il comitato di sorveglianza: a fine maggio l’organo di controllo che nelle grandi imprese in stato di insolvenza fa le veci del collegio sindacale ha dato parere positivo alla valutazione di Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba. Consentendo così al ministro dello Sviluppo Carlo Calenda di firmare, il 5 giugno, il decreto di aggiudicazione. Tra i cinque membri del comitato però c’è un rappresentante di Eni. La cui presidente Emma Marcegaglia, insieme al fratello Antonio, è amministratore delegato del gruppo che si appresta a gestire l’Ilva. E anche un legale indicato da Intesa Sanpaolo, che a breve acquisirà proprio da Marcegaglia una quota delle acciaierie tarantine. Dal ministero, a cose fatte, fanno trapelare che Calenda “si è arrabbiato”, eppure non ha esercitato alcun tipo di moral suasion nei confronti della partecipata pubblica affinché si astenesse per ragioni di opportunità.

Nel comitato di sorveglianza i rappresentanti dei creditori – A prevedere che nel comitato siedano due rappresentanti dei creditori chirografari (quelli “non garantiti”) è la legge sulle grandi imprese in stato di insolvenza. E sia il gruppo petrolifero sia Intesa rientrano nella categoria: la prima in quanto fornitore di gas per l’acciaieria, l’istituto per aver concesso linee di credito al siderurgico per centinaia di milioni di euro. Nulla di strano dunque nelle nomine, fatte il 19 febbraio 2015 dall’allora ministro Federica Guidi. L’anno dopo però l’ex numero uno di Confindustria Marcegaglia, che dal 2014 presiede Eni, ha ufficializzato l’intenzione di presentare un’offerta per il siderurgico insieme al gruppo franco-indiano ArcelorMittal. E qualche mese fa Intesa, creditrice sia di Ilva sia del gruppo Marcegaglia, ha firmato una lettera di intenti con cui si impegnava a entrare in partita se la cordata – battezzata Am Investco – fosse uscita vincitrice. Nonostante questo nulla è cambiato nella composizione del comitato di sorveglianza. Sul cui tavolo, a fine maggio, è arrivata la proposta di aggiudicazione ad Am Investco formulata dai commissari. Il Comitato ha infatti funzione consultiva sugli atti che richiedono l’autorizzazione del ministero, compresa ovviamente “l’alienazione e affitto di aziende” o dell’intero gruppo.

Il conflitto di interessi di Eni (e il ministro si arrabbia) – Il 29 maggio, quindi, il comitato ha dato il suo parere positivo, con voto a maggioranza. Intesa Sanpaolo, interpellata da ilfattoquotidiano.it, fa sapere che il suo rappresentante non ha partecipato alla riunione. Il Cane a Sei zampe invece riferisce che “il rappresentante Eni, in maniera del tutto autonoma e segregata dalla società, si è espresso in linea con la valutazione del Comitato: valutazione, analogamente a quella degli altri componenti del Comitato, non determinante per gli esiti della gara”. E aggiunge che “il Comitato, per il ruolo che gli compete nell’ambito dell’amministrazione straordinaria, non ha compiuto una valutazione di merito sulle offerte ricevute, compito che spetta ai Commissari Straordinari”. E’ vero che il Comitato era chiamato solo a valutare le corrispondenze tra la proposta di aggiudicazione fatta dai commissari e le norme che hanno regolato la gara, ma nonostante questo, apprende ilfattoquotidiano.it da qualificate fonti ministeriali, Calenda “si è profondamente arrabbiato per la mancata astensione e lo ha fatto notare a tutte le parti”. Soprattutto perché al voto favorevole di una partecipata pubblica la cui presidente era coinvolta nell’acquisizione ha fatto da contraltare l’assenza di Intesa Sanpaolo. Un’arrabbiatura ex-post, quella del ministro, che comunque non ha fatto nulla, nemmeno in via ufficiosa, per evitare la pronuncia di Eni. Identica a quella degli altri membri: il presidente Massimo Confortini, ordinario di Istituzioni di diritto privato alla Sapienza, Massimiliano Cesare, che è anche presidente di Banca del Mezzogiorno – Mediocredito Centrale (gruppo Poste), e il tributarista Ermanno Sgaravato. Quest’ultimo, che ha diverse poltrone da commissario liquidatore ed è commissario straordinario di Mercatone Uno, è tra i 48 soci fondatori dell’associazione di manager e professionisti Canova club insieme ad Antonio Marcegaglia.

Gli esuberi e la produzione dipendente dall’import – L’offerta di Am Investco Italy, a cui i commissari hanno attribuito un punteggio più alto rispetto a quello dei concorrenti Jindal, Delfin, Arvedi e Cassa depositi e prestiti, prevede un prezzo di acquisto di 1,8 miliardi (nella prima fase, fino al dissequestro, un canone di affitto di 180 milioni l’anno) e investimenti per un totale di circa 2,4 miliardi, di cui 1,25 in tecnologie e 1,15 in interventi ambientali tra cui la copertura dei famigerati parchi minerari. Il tutto impiegando nel 2018 9.400 lavoratori, cioè 4.800 in meno rispetto a oggi, destinati a ridursi a 8.400 a regime, cioè dal 2024, quando il Piano ambientale dovrebbe essere completato consentendo di aumentare la produzione da 6 a 8 milioni di tonnellate l’anno contro i 10-11 milioni del piano di Acciaitalia. La capacità di esportazione, nei progetti di Am Investco, arriverà a 9,5-10 milioni di tonnellate solo grazie all’acquisto di lingotti da laminare (in gergo bramme) da uno stabilimento francese di Arcelor. Una strategia che i tecnici interpellati dai commissari, nella relazione di cui ha dato notizia Il Fatto, definiscono “incoerente con l’autonomia che si dice di voler assicurare a Ilva, perché non può risultare autonomo un soggetto che dipende funzionalmente per più del 25-30% da bramme prodotti da terzi”. Peraltro con due altiforni fermi (il piano non prevede investimenti per riavviare quelli spenti) “non si possono garantire” secondo i tecnici nemmeno “6 milioni di tonnellate l’anno di acciaio prodotto in loco”.

La controfferta irricevibile – Due componenti della cordata concorrente, Jindal e la Delfin di Leonardo Del Vecchio, sabato 3 giugno hanno rilanciato presentando un’offerta migliorativa. Che supera quella di Am Investco sia nel prezzo sia nel numero di lavoratori impiegati a regime. Ma il ministero l’ha giudicata irricevibile perché fuori tempo massimo, appoggiandosi anche sul parere dell’Avvocatura dello Stato che però si era espressa solo sulla possibilità di rilanciare sul prezzo. Tanto che i rappresentanti di Acciaitalia, il 4 giugno, sono tornati a scrivere al Mise e al presidente del Consiglio per ribadire che a loro avviso era “possibile affrontare una ulteriore fase della procedura” senza che ciò comportasse “la violazione di alcun termine di legge per la conclusione della procedura di cessione”. Comunque secondo il ministro per il Mezzogiorno, Claudio De Vincenti, la cordata perdente non si spingerà a fare ricorso “perché non ci sono i presupposti”.

Le tecnologie a gas, “impossibili” quando le proponeva il concorrente, ora sono un’opzione – Il ministero ha fatto sapere di aver già ottenuto la “disponibilità” della cordata aggiudicataria “alla assunzione di ulteriori impegni da definire nella sede negoziale successiva alla aggiudicazione”. Si tratta per prima cosa di “maggiori impegni sul piano occupazionale” che si sostanzierebbero in una “occupazione complessiva di circa 10.000 occupati”, di fatto solo 600 in più rispetto ai progetti di breve periodo della cordata. Sul fronte tecnologico, poi, Am Investco si è detta pronta a valutare “l’impiego della tecnologia Dri e le condizioni della sua sostenibilità economica”. Un’apertura sorprendente se si considera che a febbraio, quando Jindal assicurava che in caso di vittoria avrebbe usato “tecnologie basate sul gas” (il Dri o preridotto, appunto) per produrre acciaio riducendo l’impatto ambientale, ArcelorMittal aveva replicato così: “Siamo consci che molti vorrebbero sentirsi dire che ciò è possibile, ma la nostra esperienza ci insegna il contrario (…). Se Ilva vuole avere un futuro sostenibile e redditizio deve diventare più competitiva e questo in Europa non è possibile con l’utilizzo di gas naturale o di preridotto per i prodotti d’acciaio piani”.

E protestano anche gli ex dipendenti tarantini di Marcegaglia – Il confronto tra governo e sindacati deve chiudersi entro il 30 settembre e il raggiungimento di un accordo è – salvo cambi in corsa – vincolante perché il passaggio di proprietà vada in porto. Venerdì 9 giugno al ministero di via Veneto è previsto il primo incontro dopo l’aggiudicazione. Fim, Fiom e Uilm chiederanno che la cordata Am Investco ritiri gli esuberi e mantenga in un’unica società gli operai che resteranno al lavoro e quelli destinati alle bonifiche ambientali. L’alternativa infatti è che i lavoratori non assunti dall’acquirente restino in capo all’amministrazione straordinaria, con il rischio che una volta attuato il piano ambientale vengano lasciati a casa. Nel frattempo le segreterie provinciali delle tre sigle attaccano Marcegaglia che “acquista l’Ilva ma ha ancora un conto aperto con il territorio tarantino e in particolar modo con i suoi ex dipendenti che licenziò nel lontano ottobre 2013″. Quando fu dismesso lo stabilimento del gruppo per la produzione di pannelli fotovoltaici: da allora un’ottantina di lavoratori attende la promessa reindustrializzazione del sito.

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