Che talento spettacolare: generare tutti quei peccati e rimanere innocente. In questo consiste la tua grandezza, Dio? Riuscire a restare innocente nonostante tutti i tuoi peccati? Io scrivo meglio di te, Dio. Il tuo linguaggio è incoerente. Anche la tua struttura narrativa è confusa. Ma tu sei più convincente di me. E le tue trovate sono meravigliose. L’idea del peccato è a dir poco grandiosa. Non riusciamo a superare i concetti che tu hai creato: sei riuscito a incastrarci nel peccato, per sempre. Alla fine della giornata è sempre lì, in tutto ciò che scriviamo. Perciò sei impareggiabile. Solo tu puoi tratteggiare i confini di questo romanzo. Solo tu potevi scoprire il peccato e rendere peccatori tutti i personaggi dei tuoi romanzi.

Scrittore e assassino, di Ahmet Altan (traduzione di Barbara La Rosa; edizioni E/O) è un romanzo importante, che attraverso un intreccio noir riesce a sviluppare tematiche politiche e sociali della Turchia contemporanea. La trama è semplice: uno scrittore senza nome giunge in una cittadina della costa mediterranea, un micromondo chiuso e paranoico, e per seguire i propri desideri lussuriosi si ritrova coinvolto in una serie di violenze, vendette e abusi che stravolgeranno e distruggeranno la sua vita.

Altan, arrestato dopo il grottesco colpo di Stato del luglio 2016 con l’accusa di aver diffuso messaggi subliminali contro Recep Tayyip Erdoğan, mette su carta, con maestria, il suo malcontento per il tracollo che il Paese sta accusando per colpa di una classe dirigente incapace, ottusa, reazionaria e brutalmente arrivista. Il suo protagonista senza nome, nel continuo dialogo interiore con Dio, si interroga sul ruolo del romanziere, della solitudine e dell’estraneo in una società incapace di accettare il diverso. Un diverso che in Scrittore e assassino non è esente da colpe, sempre alla ricerca dei propri piaceri carnali e della sua affermazione nella società, calpestando tutto e tutti per consacrare la propria ambizione.

Con una forte carica di erotismo morboso, di cattiveria endemica che riguarda tutti, uomini e donne, poveri e ricchi, giovani e vecchi, il romanzo si sviluppa tra la realtà della cittadina costiera e la realtà virtuale delle chat, dove il protagonista si rifugia, come una spia, per scandagliare la vita degli altri o per mandare email alla donna che pensa di amare. Una narrazione scomoda, avvincente e trascinante che, come stile, a tratti ricorda Guerrillas di Naipaul e le parti più mistiche de L’ombra della montagna di Gregory David Roberts.

Forse erano le droghe, e le visioni. Anni prima mi ero seduto sulla riva di un grande fiume, in preda a un’allucinazione psichedelica. Scorreva copioso, come l’antico Tigri o il Nilo, ma si chiamava Fiume della creazione artistica. Capii che non avrei potuto far altro che starmene lì, infilarci un piede, nuotarci dentro, pregarlo, accompagnare la gente sulle sue sponde, senza mai possederlo o reclamarne la proprietà, senza mai arginarlo con una diga o inquinarlo. Si doveva proteggerlo a ogni costo.

Golden years

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Ali Eskandarian, cresciuto a Teheran durante la rivoluzione khomeinista per poi trasferirsi prima in Germania, in Texas e infine a New York, è stato un cantautore tra i più influenti della comunità dei creativi iraniani scappati negli Stati Uniti. Nel 2013 è stato assassinato da un amico-rivale giunto nel suo appartamento dove lo ha freddato con un fucile a canne mozze. Prima di morire Eskandarian aveva terminato un romanzo, Golden Years (traduzione di Roberto Serrai, Giunti editore), che racconta le vicende di giovani musicisti senza soldi che cercano di sfondare a Brooklyn, e sulle strade d’America, alternandole con i ricordi dell’autore in Iran durante gli anni Ottanta e il conflitto con l’Iraq.

Si tratta di un duro e visionario romanzo di formazione, scritto con un linguaggio a tratti sognante, a tratti scurrile e politicamente scorretto, che ricorda Le mille luci di New York di Jay McInerney per l’ambientazione e per la centralità data all’abuso di sostanze stupefacenti e dà voce a tutti quegli esseri umani, disillusi e orgogliosi, che vivono ai margini del sistema capitalistico occidentale.

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