di Nicola Donnantuoni *

Il licenziamento discriminatorio, in senso proprio, è quel licenziamento che si basa su ragioni di natura sindacale, politica, religiosa, razziale, di lingua, di sesso, di orientamento sessuale, di età, di handicap o in relazione alle convinzioni personali del lavoratore (articolo 15 della Legge numero 300/1970 e articolo 3 della Legge numero 108/1990). Esso non è stato oggetto di copiosa elaborazione da parte della magistratura. Il motivo è di natura pratica: fino all’avvento della riforma Fornero (Legge n. 92/2012) e, soprattutto, della successiva legislazione di “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti(Decreto legislativo numero 23/2015, in seno al Jobs act), il lavoratore non aveva particolare interesse nell’impugnare il licenziamento chiedendo che ne fosse dichiarata la natura discriminatoria perché, una volta accertata l’illegittimità del licenziamento, seguiva quasi sempre l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e la piena tutela reintegratoria.

Anzi, l’avvocato del lavoratore sapeva che, dal punto di vista processuale, impugnare un licenziamento in quanto discriminatorio sarebbe stato molto più arduo che domandarne la “semplice” illegittimità per assenza di giusta causa o di giustificato motivo. Nel primo caso, infatti, spetta fondamentalmente al lavoratore dimostrare al giudice l’intento discriminatorio del recesso (e se nulla dimostra, perde la causa), negli altri casi spetta invece al datore di lavoro provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo (se non vengono dimostrati, portano alla sconfitta del datore). A grandi linee, sono queste le ragioni della scarsità di sentenze in materia di licenziamento discriminatorio, perché i licenziamenti che pure nascondevano intenti e motivi discriminatori, venivano impugnati deducendo i soli profili attinenti alla giusta causa o al giustificato motivo.

Dopo il 2012, e ancor più radicalmente dopo il 2015, la situazione muta, perché la tutela reintegratoria risulta ormai riservata a pochi casi: una tra questi è proprio il licenziamento discriminatorio. Iniziano dunque ad introdursi in giudizio sempre più casi di licenziamenti impugnati in quanto discriminatori, nella speranza di ottenere la tutela più ampia, ormai scomparsa con il Jobs act. Forse alcuni dei licenziamenti “accusati” di essere discriminatori non lo sono realmente. Bisognerebbe invece introdurre l’argomento solo se sussistono le relative evidenze, per evitare irrigidimenti interpretativi che potrebbero “inflazionare” l’istituto (dal niente è discriminazione al tutto è discriminazione). Ad ogni modo, l’effetto positivo di questo accresciuto contenzioso per materia è quello di portare all’attenzione dei Giudici un tema poco dibattuto, sollecitandone l’elaborazione giurisprudenziale.

È in questo contesto che si inserisce la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza numero 6575 del 5 aprile 2016. La giurisprudenza del passato ha sempre sostenuto che, affinché il licenziamento fosse nullo, il motivo discriminatorio (o il motivo illecito) dovesse essere l’unico motivo determinante del recesso (il cosiddetto motivo illecito unico e determinante). Ciò significa che se unitamente al motivo discriminatorio concorreva un motivo diverso (la giusta causa o il giustificato motivo), esso avrebbe escluso in radice la discriminazione, impedendo di qualificare il recesso come nullo. L’orientamento trascura che il datore di lavoro, quando discrimina, non lo fa mai in modo esplicito, ma nasconde il motivo discriminatorio dietro il paravento di un motivo diverso, che in realtà è solo il pretesto.

La Corte di Cassazione si discosta consapevolmente da tale impostazione, ricordando che licenziamento discriminatorio e il licenziamento nullo per motivo illecito determinante sono due fattispecie diverse. La discriminazione è una condotta oggettiva, che discende dalla violazione di norme di diritto interno e/o europeo e che consiste nel trattamento deteriore riservato al lavoratore in ragione della sua appartenenza a una categoria protetta tipizzata (genere, orientamento sessuale, etnia, e così via): l’eventuale presenza di un concorrente diverso motivo posto dal datore di lavoro a base del licenziamento diviene del tutto irrilevante.

In conclusione, il lavoratore potrà servirsi delle agevolazioni che la Legge gli riserva (articolo 4, Legge numero 125/1991 e articolo 28, Decreto legislativo numero 150/2011), limitandosi a fornire elementi di fatto, desunti anche da dati di tipo statistico (assunzioni, retribuzioni, progressioni di carriera, e così via) tali da fondare la presunzione dell’esistenza di oggettive condotte discriminatorie. Toccherà allora al datore di lavoro fornire la prova che la discriminazione non sussiste, e per farlo non sarà più sufficiente sostenere l’esistenza di un diverso motivo oggettivo o soggettivo. Questo, infatti, si rivelerebbe per quello che è: un pretesto, una scusa del tutto irrilevante.

* Avvocato giuslavorista, socio Agi – Avvocati giuslavoristi italiani, nato e cresciuto a Milano, mi occupo da sempre di Diritto del lavoro. Cerco, per quanto mi è possibile, di esercitare la professione nel rispetto di un significato etico e il Diritto del lavoro, in questo, mi è di aiuto: i suoi protagonisti sono soggetti appassionati e le loro passioni sono rivolte alla ricerca di ciò che è giusto.

Articolo Precedente

Ricerca precaria, un giorno tra i lavoratori che hanno occupato l’Ispra. “Famiglia? Figli? Cose a cui ho rinunciato”

next
Articolo Successivo

Delocalizzazione, quando è positiva senza eccezioni e quando è un furto

next