Scadeva il 26 maggio il termine assegnato un mese fa dalla Corte di Strasburgo per la presentazione delle osservazioni nel ricorso proposto da Silvio Berlusconi contro lo Stato Italiano, termine disposto con la rimessione del procedimento alla Grande Camera. Questione di poche settimane, forse giorni, perché finalmente si possa conoscere l’esito di un altro caso giudiziario che ancora potrebbe decidere la direzione che la politica italiana prenderà nei prossimi mesi.

Tutto inizia il 7 settembre 2013, quando Berlusconi, condannato in via definitiva il primo agosto dello stesso anno per frode fiscale per un’evasione di 7,3 milioni di euro (solo una frazione dei 368 milioni contestati complessivamente ma in larga parte prescritti) presenta ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, contestando la violazione del principio di legalità da parte dello Stato italiano con la c.d. Legge Severino (la 235/2012), che ha introdotto l’incandidabilità per chi, tra l’altro, sia stato condannato a più di due anni per un delitto non colposo, applicata dalla sentenza definitiva della Cassazione in base alla quale il Senato avrebbe dovuto pronunciarsi sulla decadenza di Berlusconi. E infatti il 27 novembre 2013, il Senato votò per la decadenza.

La questione che sta sullo sfondo riguarda la natura della sanzione dell’incandidabilità introdotta con la legge Severino: le norme penali, infatti, non possono avere efficacia retroattiva, salvo che siano norme più favorevoli. Dunque, qualificando la sanzione dell’incandidabilità come sanzione penale, questa non potrebbe essere applicata ai fatti che hanno portato alla condanna di Berlusconi, perché commessi prima della sua introduzione. Qualificandola, invece, come sanzione amministrativa, ciò sarebbe possibile in forza dell’opposto principio del tempus regit actum, secondo cui viene applicata la normativa in vigore al tempo della sua applicazione e non al tempo della commissione dei fatti. Fin qui tutto chiaro, se non per il fatto che la natura dell’incandidabilità è ambigua e molto discussa tra chi la vorrebbe qualificare come sanzione amministrativa e chi, invece, la vorrebbe intendere come penale.

Ed è proprio questa la contestazione mossa da Berlusconi in sede di Corte Edu e che, stando all’attuale giurisprudenza europea, potrebbe trovare conforto, riabilitando quindi Silvio Berlusconi e permettendogli di correre, eventualmente addirittura come candidato premier, le prossime elezioni politiche. Come mai? La Corte di Strasburgo, fin dal 1976 con la sentenza Engel, ha adottato un’impostazione sostanzialistica e non formalistica della natura delle sanzioni irrogate dagli ordinamenti nazionali. Tradotto: mentre in Italia una sanzione è penale in quanto qualificata come tale dall’ordinamento, etichettata come penale; secondo la Corte Edu, invece, una norma può essere qualificata come penale anche se non formalmente nominata tale, a condizione che soddisfi alcuni criteri, elaborati, per l’appunto, nella sentenza Engel: i criteri Engel. Una sanzione, dunque, è definibile come penale non solo quando così etichettata dall’ordinamento, ma anche quando sia caratterizzata da un alto tasso di afflittività per il reo e l’infrazione commessa dalla quale scaturisce la sanzione stessa sia di natura penale.

L’applicazione di questi criteri ad una sanzione comporta che questa sia attratta nelle garanzie penali previste in Costituzione, nel codice penale ed anche a livello europeo, tra cui, per il caso che qui rileva, il divieto di retroattività della legge penale meno favorevole. Dall’altra parte, però, un precedente della Corte Costituzionale italiana, quello emesso nel caso De Magistris, è di tutt’altro avviso: la sospensione delle cariche, comunali e locali in questo caso, è uno strumento di tutela dell’interesse pubblico e non una sanzione per il condannato e per questo non violano il divieto di irretroattività. Questo è il ragionamento che viene esteso anche alla incandidabilità a livello politico nazionale: non si tratterebbe di punire il colpevole con l’impedimento all’assunzione di cariche politiche, ma di tutelare l’interesse pubblico in termini di integrità e trasparenza.

È evidente che i criteri Engel elaborati dalla Corte europea potrebbero trovare rispondenza nel caso Berlusconi, che, dichiarato incandidabile in forza della legge Severino, entrata in vigore nel 2013 per fatti commessi prima, potrebbe ottenere l’annullamento e quindi tornare in corsa anche per le prossime elezioni politiche. Nulla gli impedisce, di fronte alla possibile sentenza favorevole da Strasburgo, di pensare ad un personale ritorno in campo. È un esito però incerto: la rimessione alla Grande Camera avviene per questioni interpretative di particolare rilievo – e certamente il caso ne è un esempio – oppure quando la decisione potrebbe far invertire una consolidata giurisprudenza della Corte, ipotesi pure possibile nel nostro caso.

Questa contrapposizione tra i due orientamenti, in realtà, si inserisce in un contesto molto più ampio che vede lo scontro, talvolta anche molto acceso, tra la giurisprudenza europea (e anche comunitaria) e gli organi giurisdizionali italiani: da una parte l’interpretazione delle corti europee, vincolante nel caso concreto per i giudici italiani, dall’altra i tentativi di tutela dei principi fondamentali del nostro ordinamento da parte della giurisdizione italiana. Quello che era sorto come dialogo tra le corti si è trasformato in realtà in uno scontro tra giurisprudenze, spesso alterato dal clima politico del momento e, nella melina sulla legge elettorale e sulle elezioni anticipate, a trarne beneficio, questa volta, potrebbe essere Silvio Berlusconi.

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