È morto Chris Cornell, storica voce del grunge, alla guida dei Soundgarden e degli Audioslave, con una solida carriera solista e la splendida esperienza nei Temple of the DogLa notizia è stata confermata dal suo agente ad Associated Press, parlando di “morte improvvisa e inattesa” (il corpo di Cornell è stato ritrovato senza vita a Detroit nella stanza dell’hotel MGM. Come riportano Variety e The Independent la polizia sta indagando per “sospetto suicidio”). 

Detta così, lo so, la notizia suona fredda, asettica. Ma se siete nati sul volgere degli anni sessanta, come chi scrive, non potete che raccontarla così, cercando di mettere le parole tra la notizia e un forte senso di sgomento, di spaesamento. Chris Cornell, una delle più intense voci del rock, è stato, insieme a Kurt Cobain e Eddie Vedder, rispettivamente nei Nirvana e nei Pearl Jam, uno dei massimi rappresentanti di una scena che per certi versi ha letteralmente chiuso il Novecento, almeno in musica. Nel libro La vita dopo Dio di Douglas Coupland c’è un bellissimo raccontino, un paio di pagine scarse, in cui l’autore canadese racconta di come ha appreso la notizia del suicidio di Cobain. Poche righe di una bellezza lancinante, perché quella notizia è stata, appunto, lancinante per una intera generazione, quella Generazione X che lo stesso Coupland ha contribuito a codificare e decifrare.

La notizia della morte di Cornell, oggi, è di pari portata. Perché se Cobain si portava via, definitivamente, la nostra innocenza, e, diciamocelo pure apertamente, l’ultimo brandello di speranza in una rivoluzione che, immaginavamo, ingenui, sarebbe partita da Seattle per conquistare il mondo a suon di riff di chitarra e voci potenti, Cornell si porta via definitivamente la nostra giovinezza. Sì, il rock ha questo potere, lo sappiamo bene, quello di trascinarci in un posto nel quale siamo ancora giovani, belli, idealisti. Pensiamo ancora, in quel posto lì, che la musica possa cambiare le cose, possa fermare le guerre, difendere i diritti civili, sovvertire dittature e, più semplicemente, cambiare la testa e il cuore della gente.

Così non è. Non lo è mai stato, forse. Non lo sarà più. Perché Cornell era, pensavamo, quello per sempre giovane e bello, con la voce che, anno dopo anno, non perdeva un grammo di potenza, lo sguardo tenebroso, la capacità, propria solo dei grandi artisti, di affrontare il palco da solo, la chitarra acustica a tracolla. Come lui, certo, anche Eddie Vedder, che però è sempre stato più inglobato nei suoi Pearl Jam, diventandone giocoforza parte anche quando poi sale sul palco da solo col suo ukulele.

Chris Cornell è, o meglio era, la voce oscura dei Soundgarden, quelli durissimi di Ultramega Ok, Louder than Love, Badmotorfnger e soprattutto Superunknown, ma era anche quella disperata dei Temple of the Dog, quella politicizzata degli Audioslave, al fianco di tre quarti dei Rage Against the Machine, così come il solista capace di sfornare unplugged come lavori discutibili come Scream, fatto in coppia con Timbaland. Un gigante del rock, una voce incredibilmente empatica, una pagina della nostra storia musicale recente che mai avremmo voluto vedere strappata così precocemente. Perché coi suoi cinquantadue anni, Cornell, ci faceva pensare di essere ancora giovani, come succede nel calcio quando vediamo in campo calciatori nati negli anni Settanta, più piccoli di noi, ma ancora ascrivibili alla nostra generazione.

Non si conoscono le ragioni di questa morte improvvisa. E onestamente preferiremmo non saperle. Perché Cornell non può realmente essere morto. Non può aver cancellato definitivamente il grunge, che dopo aver perso subito i Nirvana, e poi gli Alice in Chians, impresentabili dopo la morte di Layne Staley, ora vede sparire anche i Soundgarden, proprio negli ultimi anni tornati a suonare e incidere insieme. Loro arrivati da Seattle, nella periferia dell’impero, un posto che, prima di loro, era una città dove pioveva sempre e dove era comunque nato Jimi Hendrix, ma sicuramente non la capitale mondiale del rock. Loro più ostici dei Pearl Jam, più duri dei Nirvana, più radicali degli Alice in Chians. Il suono della nostra generazione.

Io li ho visti negli anni novanta a quella che era letteralmente un’isola di speranza come L’Isola nel Kantiere di Bologna. Un concerto granitico, di quelli che poi non riesci a dormire per giorni, tanta l’energia accumulata. L’indomani, sempre nei pressi di quel luogo, sorto sulle rovine di quello che poi sarebbe tornato a essere il Teatro del Sole, dei ragazzi mi fermarono chiedendomi l’autografo, confondendomi col chitarrista della band, Kim Thayl. Per non deluderli gliel’ho fatto, abbozzando un inglese improbabile. Il rock, in fondo, c’è sempre stato per farci sognare. Oggi un po’ meno.

 

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