Far tornare in patria chi è già emigrato. Dandogli la speranza che nel suo Paese troverà nuove opportunità di lavoro. È questo, stando alle testimonianze raccolte da ilfattoquotidiano.it tra cooperanti ed esperti del settore, l’obiettivo principale – o il più raggiungibile – delle ong che lavorano in Africa nei principali Stati di provenienza di chi arriva in Italia via mare. Al di là, infatti, del giudizio sull’adeguatezza delle risorse che i Paesi sviluppati dedicano all’aiuto allo sviluppo, gli studiosi dei fenomeni migratori sono concordi sul fatto che promuovere lo sviluppo locale non necessariamente frena le partenze. Anzi: “Paradossalmente”, spiega Matteo Villa, ricercatore Ispi che coordina l’osservatorio sulle migrazioni insieme a Maurizio Ambrosini, “la povertà è il più grande dissuasore alle partenze. Se invece aumenti istruzione e reddito medio spingi le persone a partire”. Un teorema che richiede comunque molti distinguo: per esempio il non va dimenticato che il 90% delle migrazioni è interno al continente africano e quando uno dei Paesi dell’area inizia a crescere attira persone che, altrimenti, avrebbero forse tentato di venire in Europa. In più, la tipologia dei progetti ha un ruolo cruciale: bisogna che nel lungo periodo, quando la ong se ne va, possano essere gestiti dalla popolazione locale.

“Emigrare è una libera scelta – osserva Nino Sergi, presidente emerito di Intersos e policy advisor di Link 2007, uno dei principali network di ong italiane – e secondo i nostri studi non lo fa chi è poverissimo ma chi ha la possibilità almeno di intuire che ci sono altre possibilità nel mondo. Non è detto quindi che i nostri progetti fermino l’emigrazione, inizialmente potrebbero anche aumentarla”. Per questo secondo Gian Carlo Blangiardo, docente di Demografia dell’Università Bicocca di Milano, l’obiettivo non dovrebbe essere tanto quello di frenare l’emigrazione dei ceti medi, quanto quello di trasmettere loro competenze per poi farli tornare nei Paesi di provenienza a gestire progetti di business sociale sostenibili nel lungo periodo. “A decidere di partire e raggiungere l’Europa – è la premessa – sono coloro che rientrano in una fascia di reddito da poche centinaia di dollari al mese. Non così poveri da non potersi permettere di pagare il viaggio ma nemmeno così ricchi da giustificare una permanenza nel Paese”. È la cosiddetta “gobba migratoria”: “Si tratta di giovani, generalmente uomini, che hanno la possibilità di finanziare il proprio viaggio con almeno 5mila dollari, non coloro che vivono con i famosi due dollari al giorno. Rappresentano una potenziale risorsa. Per questo dovremmo favorire un’emigrazione circolare: accoglierli con l’obiettivo di dare loro basi conoscitive ed economiche da reinvestire nei Paesi di provenienza. Se non lo facciamo, Stati come il Congo, la Nigeria o l’Etiopia rischiano di esplodere”. Ma i progetti di sviluppo locale, continua Villa, sono comunque preziosi perché da un lato “disincentivano le migrazioni verso l’esterno del continente”, dall’altro “stimolano al rientro chi è già in Europa: per questo bisogna lavorare nei paesi di destinazione, per incentivare l’imprenditoria. Lo sviluppo serve sul lungo periodo, meno sul breve”.

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