di Pia Starace

La recentissima sentenza della Cassazione Sez. Un. n.11504/2017, in materia di assegno di divorzio, detta un orientamento che incarna una mutata concezione del vincolo coniugale, dando risalto al suo valore di scelta individuale responsabile con implicita assunzione del rischio di fallimento dello stesso. Del resto, la linea della dissolubilità del vincolo è già stata “sposata” e rimarcata dall’introduzione della legge sul divorzio breve, che consente di sciogliere il matrimonio con una dichiarazione delle parti all’ufficiale dello Stato Civile (L. n. 162/2014).

Nella sentenza si conduce un ragionamento lucido che, pur ribadendo il dovere di solidarietà economica post-coniugale nel riconoscimento dell’assegno divorzile a tutela del coniuge più debole, rivede e supera, sottolineandola, l’inattualità: il vecchio parametro del “tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio” (sent. Cass. Sez. Un., n. 11490/1990), al quale si ricorreva ai fini dell’accertamento dell’effettiva sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’adeguatezza dei mezzi di sostentamento.

L’ottica è quella di scongiurare un’indebita ultrattività del vincolo matrimoniale che col divorzio cessa, sia a livello personale, sia a livello economico-patrimoniale. Oltretutto, emerge in piena luce l’ormai generale condivisione nel costume sociale che il matrimonio rivesta un significato di “atto di libertà e di autoresponsabilità”, nonché di “luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile”. Insomma, il portato interpretativo “rivoluzionario” di questa pronunzia della Cassazione certamente dà e darà adito a ulteriori considerazioni.

Io ne avanzo qui soltanto due:

1. Una riguarda la constatazione dei presupposti socio-culturali e di mentalità ai quali essa ha dato voce, che denotano la conquista di una considerazione di parità fra coniugi. Ciò anche nella contribuzione economico-lavorativa alla vita matrimoniale, frutto di una scelta maggiormente responsabile, tanto più quanto risulta ormai archiviata la concezione patrimonialistica del matrimonio come forma di “sistemazione definitiva”.

2. L’altra considerazione riguarda i benefici dei quali continua ad avvantaggiarsi l’ex coniuge “debole” divorziato, anche dopo moltissimi anni dalla sentenza di divorzio, proprio in virtù della sussistenza dell’assegno divorzile. Mi riferisco ai diritti a una quota del tfr, e alla pensione di reversibilità in caso di morte, in assenza di un coniuge superstite. Dal quadro attuale dei valori in campo, così come interpretati dalla Suprema Corte, si deve inferire che lo scioglimento del matrimonio, scelta altrettanto responsabile, deve garantire il ripristino delle individualità dei coniugi, come persone singole che si autodeterminano nella scelta di mutare le condizioni di vita.

Il trascinamento degli effetti di un matrimonio sciolto, a carico di uno dei coniugi vita natural durante, rappresenta una menomazione eccessiva della libera espressione delle individualità, in particolare del soggetto obbligato, costretto a mantenere in vita un rapporto che, già completamente svuotato di contenuti affettivi, tanto più ingiustificatamente comprime la sua disponibilità patrimoniale, condizionandone inevitabilmente le scelte.

Sarebbe auspicabile dunque una revisione legislativa della materia divorzile che, coerentemente con l’orientamento giurisprudenziale manifestato, tenga conto dell’oggettivo allentarsi nel tempo del legame fra ex coniugi, tale da esaurire progressivamente le ragioni assistenziali che inizialmente hanno motivato il riconoscimento dell’assegno di divorzio.

Solo così si avrà lo scioglimento effettivo del vincolo matrimoniale; e solo così il divorzio potrà costituire un punto di ripartenza per aspirare a ricostruirsi un’esistenza su nuove basi.

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