di  Francesco Desogus

In me e in molti miei conterranei sardi molta è la rabbia per un servizio tramesso nell’edizione della sera del Tg1, dopo l’arrivo della seconda tappa del Giro d’Italia che, per un buon tratto ha attraversato la regione della Barbagia. È un servizio di contorno, non sportivo, e ci aspettiamo curiosità, le tradizioni, le genti e gli angoli suggestivi da scoprire ed apprezzare, a coronamento di questa bellissima festa che è anche mediatica del Giro. Purtroppo non è così.

L’esordio è stato l’immancabile emblema di tanti comuni sardi: il cartello stradale blu che ne delimita l’ingresso, foracchiato dai pallettoni. In questo caso però ha una particolarità: i fori sono stati abbelliti disegnandoci attorno dei petali, trasformandoli così in tanti simpatici fiorellini. Un simbolo di vita che cancella un segno di morte. Non proprio elegante, ma ci può stare.

Siamo ad Orune, ma per l’autore del servizio è sicuramente più noto per le cronache che per i suoi ottimi e sani prodotti agroalimentari e i paesaggi selvaggi ancora intonsi. Così le immagini si soffermano su un gradino che proprio due anni fa si coprì di rosso sangue. Era quello di un diciottenne assassinato a fucilate in attesa dell’autobus per la scuola, parrebbe per questioni di stupido orgoglio. Per completezza di notizia, un cenno anche all’amico coetaneo scomparso il giorno prima del delitto, di cui ancora oggi non c’è traccia del corpo.

Visto che ci siamo, facciamo un salto nella più nota Orgosolo. Forse sopravvive nell’opinione pubblica l’idea che sia ancora la capitale del banditismo sardo (è il paese di Graziano Mesina), di una comunità fuorilegge, dove solo le querce si piegano al maestrale.

Abbiamo un testimone inaspettato, il bibliotecario comunale, chiaramente emozionato, chiamato a fornire un quadro diverso della realtà. Ed ecco una carrellata sui noti murales, eseguiti da artisti anche improvvisati, giunti da ogni angolo del mondo. Il piglio che traspare è la stesso: nascondere, come i fiorellini di prima, una realtà che si immagina ai margini del mondo civile, quello rispettoso delle leggi e dell’ordine costituito. Mancavano le donne baffute, tutte coperte di nero, che scappano di fronte alle videocamere. Mancavano le greggi chiassose e i rudi servi-pastori piegati a mungere, con il loro italiano stentato (che rimane, perché da diversi anni questo duro lavoro è svolto soprattutto da addetti rumeni).

E poi la domanda finale, da 10 e lode: perché i sardi sono un popolo chiuso? La variopinta carovana su due ruote è già passata, ormai lontana. Ed è lontana, a ben vedere anni luce, da quell’idea di Sardegna scolpita indelebilmente nella mente di certe persone. Per fortuna, dovrei aggiungere, qualcuno non ha preso di mira a pallettoni Nibali o Quintana di passaggio.

Il governatore della Sardegna, Francesco Pigliaru, è lieto di aver sborsato ben 4,5 milioni di euro per questi tre giorni che hanno garantito una visibilità “senza precedenti”. Probabilmente non con l’intento di associare questo spettacolo internazionale con un duplice delitto del 2015 nel telegiornale di maggiore ascolto. Ora ci chiediamo, per coerenza se, quando interesserà altre località ci saranno da parte del Tg1 le stesse premure di affiancare al Giro certi fatti, anche datati, di cronaca nera. Per stare in sintonia, ci potremmo accontentare di casi singolari e di Comuni abbarbicati sugli Appennini.

Lasciamo perdere e siamo seri. Abbiamo già risollevato le braccia che ci sono cascate dopo per questa immagini infelici e immature. In fin dei conti, ci siamo abituati. Qualcuno non ci sta e pretende delle scuse dal direttore Mario Orfeo e magari ci scappa pure la solita interrogazione parlamentare.

Mi accontento del più semplice e diretto “Sa bregungia”.

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