“Non dobbiamo più concedere la piazza ai sindacati”. Così tuona – dopo il Primo Maggio – la consigliera comunale pentastellata di Torino Daniela Albano; le cui immagini apparse su stampa e social ce la mostrano con una chioma rasta alla Bob Marley, tanto da indurre il sospetto che i suoi pensieri siano avvolti in un fumo azzurrino anarco-caraibico. Difatti si definisce psichedelicamente “notav-noinc-amolosport-odiolatv”. Per inciso, avendo fatto precedere tale medagliere alternativo dalla provocatoria/ossimorica qualifica di “insegnante”. Scelta d’integrazione, spia di un certo confusionismo mentale. Come dire, borghese hippy oppure vegana con il debole per l’ossobuco.

Un’altra valchiria scarmigliata e “te spiezzo in due”, alla Roberta Lombardi, alla Paola Taverna; su cui permane il dubbio se ce ne fosse davvero bisogno.

Ma questo è un problema interno al Movimento (e alla sua vocazione attrattiva di un certo tipo di signore che praticano Vaffa con il lanciafiamme).

Semmai ciò che interessa è l’ennesimo spurgo contro un soggetto che il Primo Maggio celebra non un’attività (il lavoro; in via di estinzione?) quanto i suoi diritti. La storia gloriosa, tra Ottocento e Novecento, di lotte vittoriose per la dignità e la responsabilità di un proletariato che conquistava sul campo il ruolo di primario attore sociale (“da sfruttati a produttori”, scrisse Bruno Trentin); e con la sua capacità organizzativa all’insegna del mutualismo si assicurò l’ammirazione dei liberali del tempo. Per restare in area torinese, da Luigi Einaudi a Piero Gobetti.

Certo, una tradizione urticante per parvenu di una borghesia piccola, piccola alla Beppe Grillo; incomprensibile per consulenti padronal-liberisti meneghini tipo Casaleggio & Co. Ma se si vuol recuperare un minino di spirito civico solidale, possiamo fare a meno di questa epopea gloriosa; di cui le bandiere sindacali innalzano ancora i simboli? Ovviamente fregandocene altamente delle Camusso o delle Furlan, come di tutti i burocrati che campano su queste celebrazioni.

In altre parole, un Movimento che vuole rivitalizzare la democrazia può prescindere dalla memoria storica di donne e uomini che con le loro lotte generose promossero democrazia (tra l’altro nella sua forma diretta)? Ha senso pretendere di essere l’anno zero della storia patria?

Ha senso se – in effetti – si dice una cosa ma se ne persegue un’altra, del tutto opposta: la pura presa del potere. Nelle sue modalità più fanatiche per una platea di indottrinati. Per cui, se tali indottrinati senza memoria storica svolgono il ruolo di sfasciacarrozze civiche, gli indottrinatori li scatenano contro qualsivoglia soggetto che possa smentire l’assunto di fede che non c’è più niente da salvare.

Dunque il lavoro che si organizza per difendere i propri diritti ma che viene contestato all’insegna di oscuri disegni che ne perseguirebbero la misteriosa disintermediazione. Così pure l’infangamento delle organizzazioni non governative impegnate a salvare vite nel Mediterraneo, senza nessun elemento concreto che non siano le frasi sibilline di un’organizzazione con sede in Varsavia e le velleità protagonistiche di un magistrato catanese.

Cinismo elettoralistico mixato all’irresponsabilità, in una corsa molto azzardata verso le scadenze elettorali prossime future. Mentre al presente tale mix diffonde una sorta di fondamentalismo fanatizzante.

Ne ebbi un’avvisaglia quando ricevetti in anteprima il testo di un programma 5S per le elezioni regionali; e vi lessi che occorreva uniformare i programmi didattici (ammesso che questi siano di competenza regionale) ai principi della “rivoluzione pentastellare”. Mi limitai a chiedere se non fosse una roba da Khmer Rossi di Pol Pot.

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