di Flaminio de Castelmur per SpazioEconomia

La crisi economica, che infierisce da almeno 10 anni all’economia mondiale, ha colpito duro il commercio al dettaglio in Italia e portato alla chiusura un negozio su dieci. Sono oltre 90.000 le imprese che hanno cessato o cambiato il perimetro dell’attività in questo periodo. «La recessione ha lasciato il segno sul commercio al dettaglio e il turismo con un impatto diventato dirompente dal 2011 a oggi, quando alle politiche di austerità si è aggiunto il crollo dei consumi», dice Massimo Vivoli, presidente Confesercenti.

Numero di negozi al dettaglio in Italia
(Fonte: Confesercenti – Elaborazione su dati Istat e Registro delle imprese)

La stessa Confesercenti, analizzando l’andamento del comparto dal 2007 al fine ottobre 2016, ha rilevato la progressiva riduzione delle attività, con poco di 871mila negozi contro gli oltre 962mila operanti prima della crisi. Evidenze opposte riguardano alberghi, bar e ristoranti. Come detto prima, le attività legate al turismo segnano una variazione positiva di oltre 56mila esercizi, che costituisce quasi un +15%.

Al primo posto tra le categorie più colpite ci sono i negozi del tessile-abbigliamento, il cui numero si è ridotto di un quinto a poco più di 127mila negozi. «Per il settore c’è stato un calo delle vendite del 40-50%, dice Roberto Manzoni, presidente della Federazione Italiana Moda, perché, oltre a tasse e bollette, tra spesa alimentare, casa, smartphone e gite del fine settimana sono cambiate le priorità degli italiani». Senza dimenticare il ruolo delle catene low price e il fast fashion, che hanno saputo creare modelli di business con capi dall’immagine accattivante, acquistabili a prezzi tali da permettere un turn over nel guardaroba rapido e poco impegnativo.

Entrando nello specifico del 2016, il commercio al dettaglio ha registrato, rispetto al 2010, una diminuzione del giro d’affari di circa 7,7 miliardi, equivalenti a circa 300 euro di spesa per famiglia. I dati per format distributivo dicono crollano soprattutto le vendite dei negozi della distribuzione tradizionale (cosiddetto “di vicinato), diminuite di 6,9 miliardi in cinque anni. Queste cifre significano, tra il 2011 e il 2016, una riduzione di quasi 10 punti percentuali del valore delle vendite, con dati peggiori sul fronte degli alimentari (-11%, circa 2,4 miliardi di euro in meno) che sul cosiddetto no food (-9,3%, pari a una riduzione di circa 4,5 miliardi di euro).

Va meglio la grande distribuzione, il cui calo delle vendite complessive è del -1,2% riportando però anche per la Gdo una contrazione rilevante (-6,5% per circa 3,1 miliardi in meno) delle vendite di prodotti non alimentari. Mentre l’indagine sulle diverse tipologie distributive, ci permette di notare come il comparto food abbia retto meglio perché i supermercati discount hanno incrementato notevolmente le vendite, mitigando il dato generale del settore.

Parlando di commercio nei centri cittadini, tra il 2008 e il 2016 il numero di negozi in sede fissa è sceso del 13,2%, con dati più rilevanti nei centri storici rispetto le periferie (-14,9% contro -12,4%). Si riduce il numero soprattutto di librerie, negozi di giocattoli e abbigliamento, mentre per i benzinai si può parlare di vera e propria sparizione. Mentre nei primi casi incide senz’altro il successo di altre forme distributive (internet e Gdo), il numero dei distributori di carburante risente anche delle norme Regionali che regolano il settore.

Questo ed altro emergono dalla ricerca “Demografia d’impresa nei centri storici italiani“, realizzata dall’Ufficio Studi di Confcommercio. Lo studio, che ha preso in esame 40 Comuni italiani di medie dimensioni capoluoghi di provincia ove risiede l’11,6% della popolazione italiana e tredici categorie distributive, rileva anche il fenomeno importante della crescita elevata nel numero di ambulanti, alberghi, bar e ristoranti. I primi aumentano globalmente dell’11,3% (addirittura del 36,3% nei centri storici), i secondi, crescono invece del 10,2%. Con i picchi maggiori per il Mezzogiorno, dove le attività legate al turismo (bar, ristoranti e alberghi) crescono del 17,8% e il commercio ambulante addirittura dell’85,6%.

Al fine di combattere quanto emerge da questi dati, il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli si è rivolto al governo per ottenere «un’efficace politica di agevolazioni fiscali» ma anche alle associazioni dei proprietari immobiliari per «aprire un confronto per la revisione delle formule contrattuali e per rendere i canoni commerciali più accessibili». «La Confcommercio sfonda una porta aperta quando dice che per risolvere il problema della fine dei negozi nelle nostre città serve una revisione delle formule contrattuali» dice il Presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa. Anche perché l’attuale «disciplina, imponendo contratti di 12 o 18 anni a canone immutabile (salvo l’Istat), impedisce di fatto l’incontro fra domanda e offerta. La soluzione a tutto ciò esiste: derogabilità della legge sull’equo canone per tutti e non solo, come ora previsto, per le locazioni con canone annuo superiore a 250mila euro e cedolare secca per gli affitti commerciali».

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