In attesa, a due giorni dal voto del 30 aprile, dei numeri definitivi delle primarie che hanno riportato Matteo Renzi alla guida del Pd, questa volta “depurato” di quelli che secondo l’ex nonché neo segretario volevano distruggerlo, si può fare ancora qualche considerazione. In primo luogo sui numeri: quelli “ufficiali” e “definitivi” dell’affluenza arrivano non prima di mercoledì 3 maggio e certamente si confermeranno consistenti.  Ma non potranno che essere inferiori ai 2 milioni ripetuti in tutte le dichiarazioni della serata del 30 aprile e secondo gli esponenti della mozione Orlando inferiori anche al milione e 848.658 dato per certo.

I sostenitori del numero due calcolano che alle urne si sarebbe recato un numero di elettori compreso tra il milione e seicentomila e il milione e ottocentomila e queste cifre sarebbero confermate dai dati dell’affluenza quasi dimezzati rispetto il 2013 in regioni come la Toscana e l’Emilia dove l’affermazione di Renzi è stata quasi plebiscitaria. Quanto alle percentuali ci sarebbe stato un arrotondamento per Renzi dal 68% al 70% e una corrispettiva limatura per Orlando fermo al 19,5% che invece avrebbe ottenuto il 22%.

Poi ci sono i contenuti, le prospettive e le valutazioni politiche del risultato che il vincitore dovrebbe fare da subito, tanto più se festeggia un successo oltremodo scontato per una carica che era solo virtualmente contendibile, anche quando si rivolge alla “sua gente”, tanto più se ha come obiettivo di ritornare al governo del Paese, ma a differenza della volta precedente, con il voto dei cittadini.

Nel caso del brillante 70% rivendicato da Renzi alle primarie vinte per la seconda volta in un arco temporale ristretto, con un’affluenza ben superiore al milione fissato con enorme cautela, paura o astuzia come soglia minima per scongiurare il flop, ma sensibilmente inferiore ai 2 milioni ripetutamente dichiarati in serata, andrebbe tenuto conto dell’oltre 30% in meno di elettori rispetto al 2013 a livello nazionale e del particolare non irrilevante che là dove Renzi trionfa l’affluenza crolla.

Nel ringraziamento a caldo “il nuovo” Renzi non solo non ha fatto alcun cenno al milione di voti lasciato per strada dal 2013 a oggi, e era scontato dopo la rimozione del 4 dicembre, ma si è lanciato in una sfida ricalcata pedissequamente da Macron, l’ultimo modello, più adatta per un neofita poco più che debuttante nelle pratica del potere che per un ex capo di governo ed ex segretario dominatore di un partito colpito da una scissione e ora ritornato in sella.

“La grande coalizione… La faremo con i cittadini, non con presunti partiti che talvolta non che non rappresentano nemmeno se stessi”. E il riferimento particolarmente velenoso era per gli ex compagni di partito che hanno sbattuto la porta, probabilmente in ritardo e indeboliti da qualche tentennamento di troppo. Ma insieme al richiamo “populista” nella perenne rincorsa degli aborriti avversari, quelli “che vivono di complotti e di scie chimiche ai quali non si può lasciare in mano il Paese” il Renzi del “noi”, sdoppiato nel tandem con il ministro Martina ex bersaniano di spicco e numero due nel Pd di nuovo conio, per segnare più o meno consapevolmente una netta discontinuità con il recente passato ha messo al centro del nuovo corso l’umiltà e la responsabilità.

Infine non poteva mancare il “grande grazie” agli amici che sono al governo, tra i quali il ministro alle politiche agricole Martina che ha dichiarato di volerci saldamente restare anche da vice segretario del Pd, e quello speciale a Paolo Gentiloni fedele guida del suo governo fotocopia che però sul fronte economico sarà costretto a varare una manovra poco elettorale e che tra breve potrebbe “stare sereno” analogamente a quanto ha avuto modo di esserlo Enrico Letta.

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