Quattro studenti fumano una sigaretta davanti alla cassa della musica. “Forse è l’orario che è sbagliato”, dice Elodie, 22 anni e una borsa di tela con sopra stampata la faccia del candidato socialista Benoit Hamon. “L’evento su Facebook era programmato per le 18. Dove sono tutti?”. Ventiquattro ore dopo il primo turno delle elezioni presidenziali in Francia, place de la République a Parigi era vuota. La solitudine del partito socialista, spazzato via alle urne con un risultato ai minimi storici (6 per cento), si misura in piazza. Associazioni studentesche e giovani del Ps hanno organizzato una manifestazione contro Marine Le Pen, sono venuti in poco meno di un centinaio. L’appello lo ha firmato anche Sos Racisme, il collettivo costola dei socialisti che da anni si batte contro xenofobia e discriminazione, ma non è servito a molto: accusato dai militanti delle banlieue di essersi venduto al potere, oggi lo evitano tutti come la peste. Una signora si arrende per ultima e vaga tra i capannelli di ragazzi con un cartello: “Svegliatevi, andate casa per casa a predicare la pace”, si legge. I giornalisti la fotografano, qualcuno si ferma a parlare. Dal fondo della strada una camionetta della polizia osserva annoiata e aspetta che si faccia buio.

Il 21 aprile 2002, quando per la prima volta il candidato del Front National Jean-Marie Le Pen arrivò al secondo turno, le strade si riempirono di manifestanti a tutte le ore. “Le Pen t’es foutu, la jeunesse est dans la rue”, cantavano i cori immortalati dagli archivi storici. Sono passati quindici anni e la Francia assiste al ripetersi dello choc, ma, almeno per ora, senza reagire. A dare la sveglia ci ha provato il quotidiano comunista francese l’Humanitè, pubblicando il suo appello spassionato a un voto di barricata. Il titolo, “Jamais”, se ne sta stampato a caratteri cubitali sopra la faccia di Marine Le Pen. Al chiosco di giornali della fermata della metro Stalingrad, diciannovesimo arrondissement a nord della capitale, è andato subito esaurito come non si vedeva da tempo. Ma vuol dire poco. Quella del giornale è una citazione storica e fa eco all’edizione del 2002: titolarono “La Francia non si merita questo” e tutti i francesi andarono nelle piazze tenendo ben in vista la copertina del giornale. Sono passati quindici anni e sembrano quindici epoche storiche.

La sinistra ha incassato il colpo del primo turno: i socialisti sono passati in cinque anni dalla presidenza della Repubblica alla quasi scomparsa sul territorio (hanno preso poco più di 2 milioni di voti); la resistenza l’ha firmata la France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon che però non è riuscita a fare il miracolo e si è fermata al 19 per cento. Sono due anime di uno stesso mondo: dovrebbero parlarsi per fare fronte comune contro il Front National, ma continuano a dividersi. Hanno dato il loro appoggio alla barricata i socialisti, ma anche il partito comunista dei lavoratori. Temporeggia invece Mélenchon. Ha detto che, essendo candidato del popolo, dovrà prima chiedere al popolo come comportarsi e organizzerà una consultazione online tra i 450mila sostenitori del suo partito. Un voto in stile Movimento 5 stelle, da cui non è la prima volta che prende ispirazione. Intanto in rete gira l’appello di chi al secondo turno non andrà alle urne con l’hashtag “sans moi le 7 mai“, ovvero “senza di me il 7 maggio”: è iniziato come una polemica, ora sembra già un movimento.

La lacerazione del fronte di sinistra nasce da lontano. C’è stato un tempo in cui a coinvolgere gli elettori era prima di tutto la passione e non solo il voto utile. Il 21 aprile 2002 ne è l’emblema, ovvero il giorno in cui i francesi andarono in massa alle urne per difendere lo spirito repubblicano. Votarono Jacques Chirac, un uomo di destra, sperando che poi si ricordasse dell’aiuto arrivato a sinistra. Da quella stessa sinistra  si era presentata spaccata senza un candidato comune al primo turno e che poi si è presentata a chiedere il conto. Fu tutto il contrario e la delusione, la cosiddetta “generazione 21 aprile” non l’ha mai superata. La seconda data è quella del 6 maggio 2012, l’elezione di François Hollande. Le strade della Capitale si riempirono di bandiere, canti e balli: sembrava la festa nazionale del 14 luglio o la vittoria dei mondiali, sembrava la fine di una guerra. Si celebrava il ritorno della sinistra dopo gli anni di Nicolas Sarkozy e sulla piazza della Bastiglia, la generazione 21 aprile si è fatta riprendere dalle telecamere di mezzo mondo mentre commossa intonava la Marsigliese. Gridavano, ce lo siamo già scordati, “le changement c’est maintenant”, ovvero “il cambiamento è adesso”. La cronaca racconta il resto: Hollande ha chiuso la presidenza più tormentata di sempre con il consenso ai minimi storici e soprattutto dopo aver virato verso il centro. C’è tutta questo passato che danza alle spalle quando si chiede al fronte di gauche di correre a fare le barricate contro la Le Pen. Ci sono l’amarezza di aver perso e la consapevolezza che la passione politica non basta più, c’è la voglia di tirarsi indietro. “La scelta”, scrive l’Humanité nell’editoriale di Patrick Apel-Muller, “è tra il candidato che gli ambienti della finanza hanno scelto per continuare il loro dominio distruggendo le conquiste sociali e la candidata dell’odio”. Cioè, scrive, come scegliere tra il male e l’ancora più male. E’ tutta qui la difficoltà per il mondo della sinistra: essere costretti a chiedere di andare a votare per Emmanuel Macron, quando lui stesso è considerato un nemico e responsabile dell’avanzata dei populismi di destra. Un cortocircuito.

Quello che resta della sinistra ora però deve sopravvivere in qualche modo al terremoto della politica francese. L’unità è venuta a mancare su tutti i fronti. I socialisti hanno scelto il nome più di rottura che avevano, Hamon, che però, essendo frondista, ha perso per strada l’appoggio del suo stesso apparato. E’ finito a farsi la guerra con Mélenchon sugli stessi temi e su cui, tra l’altro, molto spesso la pensavano alla stessa maniera: un pestarsi i piedi che ha danneggiato in primo luogo i socialisti. Il risultato del Ps imbarazza tutto il partito: ha ottenuto solo 2 milioni di voti, tanti quanti gli elettori che hanno partecipato alle primarie di febbraio scorso, e ora si trova a raccogliere i cocci di uno dei peggiori risultati della storia politica. L’analisi del voto è semplice: i socialisti perdono ovunque. Le uniche città dove il partito vince sono in sei comuni della Nuova Caledonia. L’ultima volta che un socialista perse così male, fu nel 1969 con Gaston Deferre (5,01%). Alcuni paragonano il trauma di Hamon a quello di Lionel Jospin, eliminato al primo turno da papà Le Pen nel 2002, ma è presto per dire se sarà lui a pagare per tutti.

Per Mélenchon il discorso è leggermente diverso: la sua è stata una scommessa vinta, ma ora cosa intende fare? L’ultima volta che un partito sostenuto dai comunisti è arrivato a toccare il 20 per cento era il 1969 con Jacques Duclos. E’ comunque poca cosa per chi ambisce a prendere la presidenza della Repubblica. L’amarezza nello scoprire di non essere riuscito nel miracolo di raggiungere il secondo turno dice tutto: se non è bastata la spinta di questo contesto politico e sociale, la prossima volta sarà più difficile perché, per superare il muro di cristallo, dovrà pensare all’aiuto di qualcun altro. La sua forza sono molti dei risultati che potrà mettere sul piatto se mai siederà al tavolo delle trattative: il successo nelle zone periferiche e nelle banlieue di Parigi (è la 34,4 per cento in Seine Saint-Denis e la Le Pen si ferma al 13%), la vittoria a Marsiglia (24,82 per cento) dove in alcuni quartieri supera addirittura la somma dei consensi di socialisti e sinistra del 2012 (nel primo e nel terzo arrondissement arriva al 40 per cento dei consensi), e la conquista dei dipartimenti d’oltre mare (Guyana, Martiniqua e la Réunion) che storicamente sono sempre stati nelle mani del Ps. In generale va molto forte in zone che erano socialiste e dove il candidato Hamon non riesce ad andare oltre il 10 per cento. Un esempio fra tutti è Lille: Mélenchon, nella città della socialista Martine Aubry, arriva primo con il 29 per cento dei voti. C’è un altro dato che gioca a suo vantaggio: secondo le rilevazioni dell’istituto Ispos, il 30 per cento di chi ha tra i 18 e i 25 anni ha votato per la France Insoumise, superando Le Pen (21%) e Macron (18%).

Gli elettori nelle urne hanno dato un segnale che qualcosa a sinistra resiste e ora dovranno rendersene conto anche i partiti. Il risultato alla vigilia dal secondo turno? I socialisti, praticamente rasi al suolo, hanno iniziato la corsa sul carro di Macron e quindi verso un annullamento del Ps. La sinistra radicale a fatica riesce a portare i suoi a votare in nome della barricata repubblicana. Per il momento sembra solo il rompete le righe subito dopo che è successo qualcosa di grosso.

*articolo aggiornato da redazione alle 12.30

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