Secondo il governo è la prima mossa per disinnescare le clausole di salvaguardia, cioè gli aumenti automatici dell’Iva destinati a scattare l’anno prossimo. Impegno ribadito la settimana scorsa dal ministro Pier Carlo Padoan, che si è rimangiato il via libera a un ritocco all’insù in cambio di una riduzione del cuneo fiscale. Ma, per ora, la certezza è una sola: il testo finale della manovra correttiva – firmata dal Quirinale ben 12 giorni essere stata ufficialmente varata dal Consiglio dei ministri – mette nero su bianco che nel 2018 l’aliquota ordinaria al 22% passerà al 25%, come previsto dall’ultima legge di Bilancio, a meno che in autunno non si trovino 14,6 miliardi di coperture alternative. In audizione davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato il rappresentante dell’Ufficio parlamentare di bilancio, autorità indipendente che ha il compito di verificare le previsioni del governo, ha osservato che “appare di difficile realizzazione l’impegno a una disattivazione totale delle clausole”.

Il nuovo articolo, che non compariva nelle bozze, “rimodula” invece l’incremento di quella al 10% che si applica ai beni di largo consumo: salirà all’11,5% anziché al 13% come previsto in precedenza, ma solo perché il resto dei rincari viene spalmato sugli anni successivi. Rinviati in blocco al 2019, poi, gli aumenti delle accise sulla benzina. Una mossa che accontenta i renziani ma cozza con la riforma del bilancio dello Stato varata nel 2016, che vieta di tappare i buchi futuri con aumenti automatici di imposte: di fatto il decreto dell’esecutivo Gentiloni fa proprio questo, rinviando una parte del problema al 2019 e 2020.

Sullo sfondo, appunto, resta la promessa che gli aumenti non scatteranno perché con la prossima finanziaria autunnale verranno trovate, con nuovi tagli o aumentando altre tasse, risorse alternative. Servono, a conti fatti, oltre 15 miliardi: le clausole dell’ultima legge di Bilancio ne valevano, per il 2018, circa 19,5, ma dalla manovrina è atteso un effetto positivo sui conti pubblici pari, l’anno prossimo, a circa 3,8 miliardi (5 lordi, ma una parte servirà per altre spese). Cifra che l’esecutivo intenderebbe appunto destinare per intero alla cosiddetta “sterilizzazione” delle clausole. In caso contrario l’aliquota ordinaria passerebbe dal 22% al 25% nel 2018. Invece l’anno successivo, stando al decreto, aumenterà “solo” dello 0,4% e non più dello 0,9%. Il possibile incremento dell’aliquota agevolata viene poi dimezzato, ma l’altra metà dei rincari scatterebbe comunque nel 2019 e 2020 (rispettivamente +0,5 e +1%).

Quel che è sicuro è che la messa a punto della prossima manovra sarà accompagnata anche stavolta dal solito negoziato con Bruxelles per ottenere sconti sul risanamento da mettere in campo: l’obiettivo di portare il rapporto deficit/pil all’1,2%, come indicato nel Documento di economia e finanza, appare velleitario, e lo stesso premier Paolo Gentiloni ha ammesso che “è una previsione molto severa rispetto alla quale lavoreremo nei prossimi mesi, perché siamo convinti che la discussione che si è già avviata in Europa tra diversi paesi possa portare a esiti positivi”. L’obiettivo è spuntare altra flessibilità, nonostante l’insuccesso di Roma nel ridurre la zavorra del debito pubblico riduca la credibilità del Paese sui mercati, come ha fatto notare venerdì scorso Fitch tagliando il merito di credito dell’Italia.

aggiornato il 26 aprile alle 9:06

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