Perché proliferano le società per azioni pubbliche, soprattutto nel settore dei trasporti? La giustificazione ufficiale è sempre la ricerca dell’efficienza. Ma è forte il dubbio che dietro alla loro costituzione ci siano obiettivi più discutibili.

di Marco Ponti (Fonte: Lavoce.info)

Definizione di società per azioni

Secondo il codice civile, una società per azioni è un’organizzazione finalizzata al profitto, che va ripartito tra gli azionisti. Già questa constatazione formale giustifica perplessità: come mai lo stato – o altre amministrazioni pubbliche che non hanno certo fini di profitto – dovrebbe costituire Spa? La proprietà pubblica ha poi di per sé natura fortemente anticoncorrenziale: si pensi per esempio all’accesso al credito, ma anche ai “rischi regolatori asimmetrici” per potenziali nuovi entranti nei mercati rilevanti. Quindi gli eventuali profitti di queste imprese sembrano verosimilmente avere natura di rendita di monopolio, con i danni economici che ne conseguono.

Inoltre, vi sono società per azioni pubbliche pesantemente sussidiate dallo stato o dagli enti locali. Nulla di in sé obiettabile: producono servizi cui si attribuisce utilità sociale. Tuttavia, non vi sono nessi tra socialità e soggetto che produce il servizio, ma solo tra socialità e caratteristiche di prezzo e qualità dei servizi forniti agli utenti.
Altre società pubbliche gestiscono “monopoli naturali”, cioè infrastrutture, che per loro natura non è efficiente mettere in concorrenza. Ma in alcuni casi il ruolo è affidato a soggetti privati, in altri no, con una logica mai esplicitata.

Nel recente proliferare di Spa pubbliche, sono poi sorte società che svolgono funzioni di regolatori o di controllori o di stazioni appaltanti, un ruolo squisitamente ed esclusivamente pubblico.

La situazione nei trasporti

Nel settore dei trasporti le società di questo tipo dominano.
Ferrovie dello stato (Fsi) è una Spa pubblica, che riceve trasferimenti dall’erario per circa 11 miliardi all’anno sia in conto capitale che in conto esercizio. Dichiara profitti a valle dei trasferimenti, che sono a mio avviso definibili “sussidi” – e non “corrispettivi” come sarebbe auspicato da Fsi – in quanto sostanzialmente arbitrari. Nessuna comparazione quantitativa è stata mai fatta tra risultati sociali conseguiti, anche di tipo ambientale, e fondi pubblici erogati: perché non sono il doppio o la metà?

Per rimanere nelle infrastrutture, le autostrade sono affidate con contratti di lungo periodo sia a società pubbliche o semipubbliche che a privati (la maggiore, Autostrade per l’Italia), senza che se ne sia mai chiarita la ragione economica. E la natura di Spa anche del soggetto pubblico concedente (Anas) impedisce la divulgazione dei piani finanziari che sono alla base delle concessioni, proprio in quanto contratti tra Spa. Quei contratti risultano sostanzialmente ancora “segretati” e difficilmente ottenibili anche da un parlamentare che ne chiedesse la visione. Eppure, non vi sono dubbi che si tratti di documenti di rilevante interesse pubblico.

Di tipo privatistico (Spa) sono i regimi aeroportuali, ma non quelli dei porti. E sono per la gran parte Spa pubbliche la moltitudine di aziende del trasporto locale, possedute da comuni e regioni e sussidiate (definizione sempre “sgradita”) con circa 5 miliardi all’anno dallo stato e dagli enti locali, in genere con livelli di efficienza molto bassi.

Anche per il settore aereo vi sono Spa con funzioni totalmente pubbliche, come Enac per il controllo di aeroporti e compagnie aeree, e Enav per l’assistenza al volo.
Alcuni anni fa poi in Lombardia è stata costituita una Spa (“Infrastrutture lombarde”) con il compito esclusivo di concedente di autostrade nuove. Notoriamente un modello di grande successo, cui si ispirano molte altre regioni.

Quali sono gli obiettivi formalmente dichiarati, all’atto della costituzione di Spa pubbliche? Sempre l’efficienza, per potersi liberare di “lacci e lacciuoli” che paralizzano le attività interne alla pubblica amministrazione.

La sensazione è che si tratti di un velo che occulta obiettivi assai più discutibili. Innanzitutto, consente discrezionalità sia nelle assunzioni del personale, a tutti i livelli, che nelle retribuzioni, in media nettamente più alte rispetto a quelle nello stato (con la conseguenza di aumentare, non ridurre, fenomeni di “cattura” e di “voto di scambio”, forse addirittura più agevoli che nelle strutture pubbliche tradizionali). Ma probabilmente la motivazione più rilevante risiede nella possibilità di aggirare, grazie alla loro (solo formale) natura privatistica, molti vincoli di bilancio o di trasparenza richiesti dall’Europa.

Tra l’altro, non risultano essere mai stati analizzati i guadagni di efficienza dichiarati all’atto della loro costituzione: l’evidenza sembra indicare il contrario e confermare possibilità di sottogoverno molto più agevoli. Inoltre è difficile ottenere informazioni sulla reale efficienza di imprese non esposte alla concorrenza.

Che fare? La risposta sembra davvero semplice, e si rifà a un solido “mantra” anglosassone: “Il pubblico faccia il pubblico e il privato il privato”. L’eterogeneità dei fini di Spa pubbliche non può che generare opacità amministrativa e politica.

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